Le famiglie del Mulino Bianco

di Emmanuel Grossi

L’idea di vivificare e rendere protagonista il Mulino mandandoci ad abitare un’intera famiglia si era rivelata vincente. La mamma maestra, il papà giornalista, i piccoli Linda e Andrea e il buon nonno erano entrati nel cuore della gente, che si inteneriva e appassionava alle loro storie minime, legate alla natura e all’amore per gli animali e permeate di buoni sentimenti con un pizzico d’allegria. Le giornate primaverili ed estive baciate dal sole trascorrono in serenità al Mulino delle Pile, dove di solito sono i bimbi a ravvivare il clima innescando le dinamiche con giochi e scherzi, assecondati di buon grado da genitori e nonno.

Col passare del tempo, la famiglia rompe progressivamente il proprio sistema chiuso, anche per non riproporre sempre gli stessi schemi: accoglie amici e parenti, va in paese a fare la spesa e a tifare il papà maratoneta, il quale poi, in trasferta lavorativa, si affretta a prendere il vagone letto pur di non perdersi il rito collettivo della colazione…

Nel 1993, dopo quattro anni e una trentina di soggetti, si avverte la necessità di un rinnovamento. Il gradimento del pubblico stava calando e, oltre a stancare, si rischiava di scivolare nell’oleografia di maniera. E certo non giovavano le critiche degli intellettuali, né ironie e parodie che fioccavano da ogni dove. Nel linguaggio comune, “la famiglia del Mulino Bianco” era diventata (ed è tuttora) uno stereotipo pieno di ombre, ben distante dagli intenti e dalle reali atmosfere degli spot. Come la bella headline “Milano da bere” di Marco Mignani (autore di tante campagne Barilla e Voiello) era stata inquinata dalla cronaca politico-giudiziaria e svuotata di quelle alacrità, modernità e internazionalità che legavano la città al suo storico amaro, il Ramazzotti, così la famiglia del Mulino era diventata l’emblema della finzione pubblicitaria, scollata da realtà e quotidianità. Negli anni di Tangentopoli, della guerra in Bosnia, del Maxiprocesso di Palermo, delle stragi di Capaci, via D’Amelio e via dei Georgofili, per molti stridevano le vicende di una famiglia i cui principali pensieri erano far volare un aquilone, andare a passeggio, costruire una capanna nel bosco o stare ad osservare gli aironi.

L’agenzia Testa, per tener vivo il rapporto con Barilla, commissiona dunque uno sviluppo della serie ai direttori creativi Mauro Mortaroli ed Erminio Perocco – da poco tornati nella casa madre di Torino dopo aver diretto la sede di Roma – le cui cifre stilistiche erano l’umorismo e il ricorso alla commedia all’italiana, che già erano valsi loro premi e successi (a partire dalla fortunata saga “Una telefonata allunga la vita” con Massimo Lopez per la SIP, poi Telecom). Ricorda Perocco che, per trarre ispirazione, avevano trascorso alcuni giorni dentro il Mulino, che nella loro proposta sarebbe diventato ancor più protagonista. Fino ad allora, infatti, all’atto pratico era stato presentato come un cascinale con ruota ad acqua; l’idea era invece di renderlo sì abitato, ma mantenendo internamente aspetto e funzionalità di un mulino vero (come avremmo poi visto, vent’anni dopo, negli short con Antonio Banderas e la coppia Nicole Grimaudo-Giorgio Pasotti). Alla solita famiglia ne sarebbero subentrate due, inserite nella vita di paese così da consentire tanti e sempre nuovi sviluppi narrativi.

Tutto lasciava presagire che la campagna sarebbe stata approvata e subito messa in calendario… ma – ricorda ancora Perocco – poco prima della presentazione in Azienda moriva Pietro Barilla. È il 16 settembre 1993. Gli succedono i figli, già da tempo al suo fianco, e d’accordo col board dirigenziale la comunicazione del Mulino imbocca un’altra strada, più elegante e al passo coi tempi senza tradire i valori di sempre.
Come da prassi, infatti, oltre allo sviluppo della serie preesistente Marco Testa aveva presentato una seconda proposta, di respiro più internazionale, commissionata ad Alberto Baccari, creativo italiano di stanza a New York, dove aveva diretto per anni la filiale americana dell’agenzia. E fu così che le principali città d’arte presero a fiorire di grano, prati e ruscelli.

Ma questa è già un’altra storia.