Carosello e l’arte contemporanea

di Emmanuel Grossi

Carosello, con il suo taglio cinematografico a tratti documentaristico, i grandi attori, i grandi registi, il respiro narrativo, gli allestimenti curati fino al dettaglio, è diretto discendente della settima arte, il cinema. A renderlo così peculiare ed interessante sono però le sue mille contaminazioni con istanze provenienti da televisione, teatro e ogni altra forma di spettacolo, intrattenimento e comunicazione. Compresa l’arte figurativa.

In vent’anni (meno un mese) di programmazione, per decine di migliaia di short, si è visto un po’ di tutto: riprese all’interno dei musei e gironzolando per quei “musei a cielo aperto” che sono le nostre città d’arte, affascinanti parallelismi tra gli affreschi medioevali e rinascimentali e i medesimi scorci nell’attualità (per Carapelli), rievocazioni seriose o scherzose dei Maestri del passato (Leonardo da Vinci su tutti, onnipresente), addirittura preziose interviste ai contemporanei (Bartoli, Bueno, Cagli, Capogrossi, Gentilini, Guttuso, Levi, Minguzzi, Salvatore, Sassu) mentre danno vita alle loro opere, immortalati dalla macchina da presa per conto delle distillerie Fabbri e Stock.
Ma il legame più forte e di maggior impatto visivo e mediatico è sicuramente quello restituitoci dai caroselli Barilla girati da Valerio Zurlini tra il ’69 e il ’70 e trasmessi in tre tranche nell’arco di tutto il 1970.

L’origine della serie va ricercata nella passione per l’arte contemporanea che accomunava il regista e Pietro Barilla, per tramite dell’amico storico dell’arte Luigi Magnani, parmigiano anch’egli, che si narra abbia spronato l’industriale a creare la prestigiosa collezione che è tuttora patrimonio e vanto della Famiglia e dell’Azienda.
La profonda conoscenza della materia e il rinomato gusto estetico spingono Zurlini (col beneplacito entusiastico della committenza) a girare una quindicina di caroselli con un duplice fulcro: Mina (che già aveva diretto nel 1965 nella serie d’esordio per Barilla) e le opere d’arte, che troneggiano in tutti gli short in fedeli riproduzioni realizzate dai maestri artigiani del laboratorio del Teatro alla Scala. A rivelarci questo particolare – emblematico della cura prestata alla pubblicità – è Enrico Tovaglieri, lo scenografo milanese autore delle varie ambientazioni, che di lì a poco curerà anche l’allestimento del tour teatrale di Mina e Giorgio Gaber (e il film di Zurlini La prima notte di quiete) e più avanti si occuperà di tutta la lunga serie Quando i mulini erano bianchi, per Mulino Bianco.

Il livello artistico (mai parola fu più appropriata) è talmente elevato che non ci è dato comprendere appieno tutti i riferimenti evocati dal regista. Alcune opere sono chiaramente identificabili: le tele di Alberto Burri e René Magritte, le sculture lignee di Mario Ceroli… Ma ricorda Nino Vanoli, allora producer dell’agenzia McCann Erickson (e che vediamo eccezionalmente impersonare il diavolo in Sacumdì sacumdà), che anche le tende di frangia, le silhouette, i controluce e i diversi scorci erano citazioni ben precise, perlopiù di installazioni esposte alla Biennale di Venezia…

E in mezzo a questo profluvio di arte e cultura, lei: Mina, con la sua bellezza e la sua voce.