Giorgio Albertazzi, il cigno della pastasciutta

di Emmanuel Grossi

Autunno 1958. La televisione, con il suo unico canale a diffusione nazionale con programmazione quotidiana, ha meno di cinque anni; Carosello meno di due. E Barilla, che aveva presidiato la bella stagione con una serie di fiabe per i più piccini (gli stessi a cui era espressamente rivolta la pastina glutinata), séguita a trasmettere senza soluzione di continuità e scrittura il primo testimonial della propria lunga storia pubblicitaria: Giorgio Albertazzi.

Il prodotto reclamizzato è sempre lo stesso, ma il respiro ben diverso: si vuol parlare ad un pubblico di tutte le età (come raffigurato nel bislacco codino finale) e si cerca (già allora!) un posizionamento alto, una veste elegante, riferimenti culturali aulici. Di lì a poco, Albertazzi sarebbe intervenuto nel dibattito sollevato dal Direttore Generale della RAI sulle differenze fra teatro e prosa trasmessa per televisione, dichiarando al “Radiocorriere”: “L’emozione dello spettatore televisivo ha bisogno, per essere suscitata, di un colloquio più intimo. Il suo interlocutore segreto è il volto che si affaccia al piccolo schermo, un volto capace da solo di contenere ed esprimere una storia. L’attore televisivo è un equilibrista sulla corda, un trapezista di alta acrobazia. Il senso della sua qualità espressiva è sempre misurabile sul suo volto. Il ritmo dello spettacolo televisivo, il suo intimo cuore, verrà dettato soltanto dalla vita che egli riuscirà a infondere nella storia che sta raccontando, in quel segreto, complice colloquio con lo spettatore solitario, colloquio che sancisce lo spettacolo televisivo”. E, coerentemente, sono all’insegna della misura e della colloquialità intimistica anche i caroselli che interpreta per Barilla.

Da ottobre a fine anno introduce e commenta rari reperti filmici del muto tratti da una fantomatica cineteca di famiglia (in realtà, molto probabilmente provenienti dall’immenso archivio Pathé), che mostrano davanti alla cinepresa Pirandello e Marconi, Edison e Einstein, Nuvolari e la Duse. Poi, da gennaio a giugno 1959, cita se stesso e si rifà alla rubrica televisiva di cui era stato protagonista nel 1955, Appuntamento con la novella: tenendo in mano un libro aperto come un breviario, recita versi poetici, stralci di monologhi teatrali e pagine di epistolari, perlopiù di tono romantico o (come si sarebbe detto all’epoca, con un’accezione diversa dall’attuale) patetico. In ambo i casi, introduce L’album di Giorgio Albertazzi una sigla disegnata dall’artista di fiducia di Barilla, Erberto Carboni.

Dopo mesi di voce impostata e suadente, l’Azienda avverte i rischi connessi ad una comunicazione così paludata ed elitaria e, per avvicinarsi a tutte le fasce della popolazione (in Italia l’analfabetismo era ancora dilagante, tant’è che a fine 1960 sarebbe partito il famoso programma di scolarizzazione Non è mai troppo tardi), vira rapidamente sul buffo, caotico e meno impegnativo Dario Fo.

A raccogliere l’ingombrante eredità di Albertazzi provvederà il “rivale” Vittorio Gassman, che nel 1961 declama a sua volta Dante e Leopardi, per conto della Perugina. “Il cigno della pastasciutta” (come l’avrebbe appellato Achille Campanile) torna invece a Carosello nel 1964, per la Gazzoni di Bologna, coinvolgendo la compagna d’arte e di vita Anna Proclemer. Ai biasimi dei puristi avrebbe risposto, ancora a mezzo stampa, che la pubblicità gli serviva a ripianare le spese sostenute per il faraonico allestimento teatrale dell’Amleto (di cui era produttore, oltre che protagonista), diretto da Franco Zeffirelli con una cinquantina di attori in scena, fra cui Annamaria Guarnieri, Mario Scaccia e la stessa Proclemer.