Mina, Gherardi e la fabbrica dei sogni

di Emmanuel Grossi

Piero Gherardi, il più estroso ed onirico degli scenografi e costumisti del cinema italiano, collaborava con Federico Fellini da una decina d’anni: avevano girato insieme molti film, da Le notti di Cabiria fino a La dolce vita e 8 ½, entrambi Oscar per i costumi e nomination per le scene. L’ultimo lavoro era stato Giulietta degli spiriti (altre due nomination da parte dell’Academy), ma avevano finito per litigare – entrambi caratteri forti e fumantini – troncando i rapporti.

Proprio in quel mentre arriva Barilla, che corteggia Fellini per i caroselli con Mina mentre lui la sta corteggiando per Il viaggio di G. Mastorna. Entrambi gli approcci rimarranno non corrisposti. Ma il mondo del cinema, e Cinecittà in particolare, è sempre stato un condominio, la voce corre e giunge alle orecchie di Gherardi, che si rende disponibile a dirigere lui gli short, proponendo di utilizzare le stesse location, una più particolare dell’altra, che aveva personalmente scovato per il Mastorna, così da “bruciarle”.

Per Gherardi sarà la prima e unica esperienza dietro la macchina da presa (coadiuvato dal direttore della fotografia Dario Di Palma), ma non sono certo le soluzioni registiche a rendere quei caroselli unici. A creare quell’alchimia magica sono tre elementi potentissimi: i luoghi, i look e Mina, con la sua bellezza e le sue canzoni (tutti successi, da Mi sei scoppiato dentro il cuore a Ta-ra-ta-ta, dalla sanremese Una casa in cima al mondo alle sigle televisive Mai così e Se telefonando).

La forza evocativa di abiti e location risiede nell’aver reinterpretato e caricato di creatività elementi di per sé molto semplici, perfino pauperistici. Niente broccati, haute couture, regge sontuose, mete esotiche o meraviglie della natura: perlopiù architettura industriale (tetti geometrici e dagli effetti prospettici, cantieri di edifici in costruzione) o comunque contemporanea, giochi di specchi, spiagge al tramonto, cavalli al pascolo e palloncini. Gherardi, che ai bozzetti preferiva operare direttamente con le stoffe, insieme all’assistente (poi direttore di sartoria) Gabriele Mayer veste prevalentemente Mina con un abito-base nero, al più grigio, aggiungendovi di volta in volta un accessorio insolito: ruote o strati di crine, tòrcoli, piume di fagiano, fiori di merletto ricamati… Oppure appronta abiti di taglio strano ma altrettanto lineari: un ampio mantello doppio forato a cerchi, una tunica plissettata tessuta tubolarmente come un lampioncino cinese, un corpino monospalla bianco che si innalza a ricordare una calla…

Fra l’8 settembre e il 28 ottobre 1966 e ancora dal 1° gennaio al 20 febbraio 1967 queste perle di cinema illuminano gli schermi televisivi. Ma forse a quel tempo, incastrati fra un Moplen, un Oro Pilla e una brillantina Linetti, nemmeno se ne percepì appieno l’importanza. Li apprezziamo di più oggi, oltre mezzo secolo dopo, sognando e rimpiangendo quell’Età dell’Oro della pubblicità e dello spettacolo tutto.