Marco Biassoni e Re Artù

Marco Biassoni e Re Artù

Gian Paolo Ceserani

Biassoni è cognome milanese: Marco Biassoni nasce invece a Genova, dove la sua famiglia si è trasferita. Non ci sta molto: a trent’anni, nel 1960, si trasferisce nella “sua” Milano, dove le qualità di “matita creativa”, che ha già messo in mostra, verranno senz’altro apprezzate di più.
È così, infatti: diviene uno dei migliori cartoonist sulla piazza, uno dei protagonisti creativi di Carosello, ormai trasmissione cult degli italiani. L’incontro con Gran Pavesi è del 1964, e non con Carosello ma con una serie di film a colori di cui due verranno premiati a Venezia.
I filmati si intitolavano “Punto e linea” e il gioco di parole faceva già intravedere la strategia: la linea come promessa-base del prodotto. Erano molto divertenti: tre floride signore -alla deriva su una zattera-cracker- mandavano un SOS, battuto per l’appunto in punto-e-linea, finché la nave Gran Pavesi (altro gioco di parole con il “Gran Pavese”!) interveniva al soccorso.
Subito dopo inizia l’epopea della Tavola Rotonda. Da dove veniva l’idea? Era già patrimonio Pavesi: nel 1962 era uscita una campagna dal titolo “A tavola! A tavola! Ci sono i Gran Pavesi!”, e in un telecomunicato lo speaker diceva: “Sulla tavola rotonda, sulla tavola quadrata, metti in tavola Gran Pavesi”.
Biassoni parte da questo spunto e costruisce una vera saga. Le sue invenzioni, costantemente brillanti, spiritose, immediate, per anni (dal 1965 al 1975, cioè poco prima dell’addio di Carosello) si ripercuotono nell’immaginario collettivo.

Come mai non siamo in otto? Perché manca Lancillotto! “Questo, dice Biassoni, era uno dei ‘tormentoni’, come allora li chiamavamo, necessari come corredo di Carosello, della sua memorabilità”.
Miglior modo di sintetizzare il posizionamento del prodotto non si poteva immaginare: la lunga serie dei Caroselli riescono sempre a superare la classica, temuta frattura fra “spettacolino” e “codino”, a sua volta il “tormentone” di tutti i pubblicitari. La “tavola” è una decisione strategica: l’azienda, così, posizionava il prodotto evitando di attaccare direttamente il pane.
Il successo di un carosello, di un “vero” carosello amato dal pubblico, si misurava dal riconoscimento delle battute iniziali. Immediata era la riconoscibilità delle trombe che annunciavano con finta solennità lo spettacolino. Con lievi varianti, il rituale d’inizio rimane codificato negli anni: la bionda e grassottella Ginevra, sempre accompagnata da una grande torta, chiede lamentosamente: “Ma perché non siamo in otto?” “Perché manca Lancillotto”, risponde bofonchiando Artù.
Subito dopo, un cavaliere parte alla ricerca del prode Lancillotto in una serie, sempre uguale e sempre diversa, di avventure in rima. Compaiono streghe, saraceni, numerosi giganti e aggressivi cavalieri (indimenticabile il tremendo Cavaliere Nano).
Non manca qualche gustosa variazione interna. In una l’intera troupe cavalleresca, Artù compreso, si trasferisce in Egitto, dove incontra l’eremita Geremia e un feroce orco; in un altro carosello (del 1969) appare un canterino Robin Hood; in un altro ancora (1971) la tavolata risponde così al suo sovrano: “Lancillotto, o re Artù, te lo vai a cercar tu”. E Artù si inoltra addirittura nel traffico moderno, guida una sorta di auto e prende l’inevitabile multa.
Al termine di ogni avventura arriva naturalmente “Il Nostro”, Lancillotto in persona, lanciato al galoppo, che atterrisce i cattivi e “combina un quarantotto”.

Incantevoli le strofette rimate e straordinario il campionario di rime in “otto” richieste dal “tormentone” di Artù che in continuazione chiede: “Sì, va be’, ma Lancillotto?” Ecco qua: ghiotto, rotto, decotto, galeotto, scotto, cerotto, botto, giovanotto e mille altri sino a un irresistibile “Castello Camelotto”.
La fine dello spettacolino è perfetta quanto l’inizio: “Morale della favola, in tavola!”, e così abbiamo uno dei rari casi in cui spettacolino e codino non sono separati dal solito “singhiozzo creativo”.
Quando Biassoni propone la sua famosa truka, quella delle fette di pane che si trasformano in crackers, desta qualche timore per un linguaggio tanto esplicito. Ma il prodotto è chiaramente vincente, i dubbi sono fugati. Questa brillante invenzione appare nel 1967, e viene subito usata anche sulla stampa.
Con i mezzi di allora, la truka richiedeva doti di grande creatività e dosi massicce di fai-da-te. “Mi feci aiutare – ricorda Biassoni – da Arnaldo Canili, che aveva già lavorato con Armando Testa con risultati molto brillanti. Ci siamo dovuti arrangiare con la truka in asse e a passo uno: a quel tempo non c’era nemmeno la truka aerea, figurarsi l’elettronica!”
I crackers andavano “incernierati” uno per uno con una specie di spillino: “Se ne rompevano, dice Biassoni, diciannove su venti”. Ma alla fine, dopo tutta una serie di piccoli incidenti, il primo filmato esce ed è subito successo. Una simbologia lampante, una bellissima sintesi creativa. Con immediata presa sul pubblico. Anche senza l’aiuto dell’elettronica.