“Check Point Pasta” a Parma. Note sull’architettura dello stabilimento Barilla a Pedrignano.

di Luca Monica

L’apertura dell’Autostrada del Sole nel tratto tra Milano e Bologna, avvenuta nel 1959, aveva progressivamente determinato la costruzione di un paesaggio industriale, ad essa allineato, completamente diverso da quello sorto nelle periferie delle principali conurbazioni, disponendo di superfici allora inconsuete e cogliendo occasioni di insediamento eccezionali. Già gli Autogrill Pavesi, soprattutto quelli a ponte realizzati dall’architetto Angelo Bianchetti (1911-1994) a partire dal 1959, erano opere di ingegneria configurate in termini architettonici, così come in seguito lo sarebbero state alcuni stabilimenti industriali, e tra questi lo stabilimento Barilla. Un autentico archetipo, dove l’uso di una prefabbricazione edilizia aggiornata e di qualità nel dettaglio derivavano da un’industria delle costruzioni molto avanzata nella progettazione.

Infatti già a partire dal 1964 (lo stesso anno in cui entra in funzione lo stabilimento progettato dall’architetto Gian Luigi Giordani (1909-1977) in viale Veneto, oggi viale Barilla), la Barilla aveva acquistato le aree su cui sorgerà il futuro stabilimento di Pedrignano, concepito precocemente rispetto al fenomeno dell’industrializzazione dell’asse autostradale, ma anche rispetto ai processi di pianificazione urbana che a Parma, solo con il Piano Regolatore Generale del 1967 prevederanno, per la prima volta, zone funzionali di questo tipo.

Il tema dell’autostrada inizia infatti in quegli anni ad essere colto anche come occasione e come risorsa per le aziende in termini di immagine pubblicitaria, al punto da condizionare le nuove scelte di localizzazione per gli stabilimenti. Ancora nel 1964 la Barilla commissiona allo studio Pietro Gennaro e Associati di Milano una consulenza per un Promemoria su alcuni criteri di scelta tra alternative di investimento, sui possibili vantaggi economici derivanti dalla localizzazione di uno stabilimento per la produzione della pasta lungo l’Autostrada del Sole nel tratto Roma-Napoli, vantaggi relativi all’aumento dei volumi prodotti in virtù del solo effetto pubblicitario indotto dall’affaccio sulla via di transito e indipendenti dal sistema di relazioni industriali, economiche e di mercato complessive sulle quali si fonda l’azienda.

Dal punto di vista della tipologia insediativa il nuovo stabilimento offriva tuttavia opportunità interessanti. Se l’edificio di Barriera Vittorio Emanuele era caratterizzato da una forte concentrazione degli spazi e da una tradizionale organizzazione verticale delle attività, a Pedrignano potevano dispiegarsi, in orizzontale, le linee di produzione continue, così da organizzarsi secondo quell’incessante processo di automazione con macchine transfer che in quegli anni si andava sviluppando, con un impatto nella cultura industriale bene descritto dal sociologo Frederick Pollock nel suo libro Automazione, del 1957.

Attualmente, infatti, lo stabilimento di Pedrignano, rappresenta il cuore dell’universo industriale della Barilla che coinvolge buona parte della filiera economica relativa a questi prodotti, a garanzia di caratteristiche qualitative controllate, a partire dall’attività di macinazione delle farine di semola, fino ai cicli di lavorazione interni allo stabilimento di Parma, dove la linea di produzione, interamente automatizzata, esegue tutte le lavorazioni tra loro collegate, dalla farina di semola depositata nei grandi sili, alla fabbricazione della pasta, alla confezione, al deposito.

Nella progettazione di questo stabilimento colpisce il ruolo decisivo che hanno assunto le linee di produzione, spettacolari a vedersi, sia in termini di complessità costruttiva, che di dimensione, che di organizzazione funzionale. Caratteristiche, queste, strettamente riferite all’ingegneria industriale e che appartengono all’esperienza tecnica raggiunta. Nel precedente stabilimento di viale Veneto queste competenze erano state svolte in gran parte dagli uffici interni alla Barilla, in un progresso di integrazione che aveva potuto acquisire l’architettura dei fronti esterni in un sistema costruttivo spinto fino al disegno del dettaglio di cantiere e in una organizzazione delle macchine e delle loro strutture.

Qui a Pedrignano, invece, le dimensioni eccezionali per allora (ma ancora oggi questo pastificio è il più grande impianto al mondo), avevano comportato una progettazione architettonica specifica per il grande spazio coperto e per i suoi impianti, e una realizzazione interna di grandi strutture di carpenteria e macchine allora mai sperimentate, coinvolgendo le principali aziende meccaniche del settore. Strutture che apparivano nelle foto del buio e cavernoso cantiere interno, come un qualcosa di assolutamente inconsueto rispetto ai panorami e ai paesaggi industriali tradizionalmente conosciuti.

E infatti, a una fabbrica così avanzata tecnologicamente, si sarebbero preferiti illuminazione e climatizzazione artificiali, ottenuti con facciate e coperture completamente chiuse e con un sofisticato impianto di condizionamento dell’aria al fine di preservare le temperature e i gradi di umidità imposti dai cicli di lavorazione.

Se lo stabilimento di viale Veneto era stato definito «una casa di vetro», emblematico di una comunità produttiva aperta alla propria vita, come titolava un articolo apparso nel giornale interno della Barilla nel 1964, questo edificio di Pedrignano, che non concede nulla che vada oltre al rigido rapporto tra le macchine e gli addetti, sempre meno numerosi per via della progressiva automazione, esaltava valori opposti, di estrema razionalizzazione e autonomia. Valori che, se negli anni Settanta, in Italia, potevano essere il riflesso di una condizione di estrema durezza dei rapporti di lavoro, si pensi al bel film di Elio Petri, La classe operaia va in Paradiso, del 1971, oggi non necessariamente hanno assunto connotati negativi, e corrispondono a una condizione di lavoro sicuramente di grande dignità, in un bilancio complessivo riferito alla storia recente e alla tradizione imprenditoriale della famiglia Barilla.

Rispetto a tale dichiarata autonomia ed efficienza impiantistica, sostanza e immagine di una moderna capacità produttiva della Barilla, generata dall’interno delle sue conoscenze industriali e da una estrema maturazione della tecnica di questo settore, corrispondeva, per altri versi, il disegno architettonico della fabbrica.

Il gruppo di progettazione stesso era orientato a tali criteri di efficienza edilizia, a partire dallo studio di ingegneria di Giuseppe Valtolina (1904-1971) e Carlo Rusconi Clerici (1914-1989), di Milano (che già avevano collaborato nel capoluogo lombardo alla realizzazione del Grattacielo Pirelli), e della società statunitense di engineering Austin, per la progettazione esecutiva e la realizzazione, che avrebbero richiesto la presenza di circa 600 addetti residenti nell’area del cantiere, nelle fasi di maggior impegno del periodo di costruzione dal 1967 al 1970.

L’edificio era concepito perseguendo un interessante dominio della composizione dei grandi volumi tecnici sulle coperture, emergenti dal corpo di fabbrica principale, quasi un basamento, formato dai pannelli prefabbricati in cemento bianco delle facciate, a delineare un superblocco di 55.000 metri quadri coperti, con un fronte continuo lungo l’autostrada di 340 metri di sviluppo.

Il dettaglio architettonico più significativo resta il disegno del pannello prefabbricato esterno che racchiude le facciate, alte dai 7 ai 10 metri, e che con le sue nervature, quasi dei contrafforti, rende staticamente più stabile rispetto alle pressioni del vento il telaio costruttivo interno, a pilastri e travi in cemento precompresso. Questi elementi autoportanti, con una mensola al piede che li incastra nell’appoggio, formano uno zoccolo arrotondato che insieme alla serie di nervature accentua il ritmo dello sviluppo lineare delle facciate. Ma questo basamento, oltre a dare un incastro di sostegno al pannello, ne determina un profilo figurativamente inedito rispetto alle facciate continue di altri edifici industriali di questo tipo.

Il basamento infatti unisce al terreno il corpo di fabbrica, rendendolo volumetricamente più identificabile, accentuando la linearità e rendendo più sfuggente la parete, apparentemente più schiacciata sul filo della campagna nella percezione dinamica dall’autostrada.

E forse proprio per tali motivi, nel 1979, questa autorevole opera di architettura, severa e caratterizzata, che ben si distingue da altre, più anonime, presenti lungo il corso dell’autostrada, era stata inclusa in un referendum promosso dalla rivista di architettura “Modo” sulle cento più significative opere di architettura italiane realizzate a partire dal 1928.

Il complesso dello stabilimento di Pedrignano appare ancor oggi dall’autostrada, come nel 1970, con il suo nitido distacco dal fronte autostradale. Tuttavia alle sue spalle si è col tempo sviluppata un’area industriale molto più complessa e articolata di quanto in origine prefigurato dai progettisti del volume iniziale. A parte una serie di espansioni e di nuovi padiglioni via via aggiunti, come il Pastificio Uovo realizzato sempre dalla Austin tra il 1995 ed il 1996 ed entrato in funzione nel 1997 e lo stabilimento per la pasta ripiena del 1998, inaugurato il 26 ottobre 1999 alla presenza del Ministro della Sanità Rosy Bindi, entrambi sorti in sostituzione dell’impianto di viale Barilla in dismissione, sono da ricordare alcuni episodi architettonicamente significativi e che hanno teso a ricostruire quel senso di comunità urbana che era così evidente nel complesso di viale Barilla demolito alle soglie del nuovo millennio.

In primo luogo va ricordato il progetto non realizzato, disegnato intorno al 1984, dall’architetto paesaggista Pietro Porcinai (1910-1986) per la sistemazione delle aree circostanti lo stabilimento e che si estendevano anche sul lato opposto dell’autostrada. Porcinai immaginava l’autostrada entrare nell’area dello stabilimento e attraversarlo, fendendo un’area fittamente alberata, fissandolo geograficamente come un punto di riferimento significativo, una sorta di check point, riconoscibile sulla via tra Milano e Bologna. Su queste aree, inoltre, su una fascia lasciata a prato avrebbero dovuto essere disposte alcune centinaia di galline ovaiole di colore bianco, radunate intorno ad alcune mangiatoie lungo il fronte autostradale, così da rappresentare, in toni molto divertiti, la produzione di pasta all’uovo nei modi di una ruralizzata pop-art.

Al posto di questa disincantata installazione Porcinai fu invece incaricato di sistemare alcune parti interne all’area dello stabilimento e Pietro Barilla, diversamente, preferì disporre nei prati circostanti una serie di sculture contemporanee e all’interno degli uffici dipinti di autori del Novecento che nel frattempo avevano formato una vera e propria raccolta d’arte, oramai celebre, destinata ai luoghi di lavoro (con opere di, tra gli altri, Bacon, Balla, Boccioni, Cascella, Ceroli, Consagra, De Chirico, Léger, Ligabue, Marini, Picasso, Pomodoro, Savinio, Sutherland, Vangi,).

Vale la pena sottolineare, tuttavia, quanto il tema delle opere d’arte all’interno della fabbrica, non subisca qui nessuna enfasi retorica, ma invece entri con naturalezza e quasi occasionalità a fare da contrappunto al colpo d’occhio sul paesaggio industriale, denso dei vapori acquei che escono dai molti camini, che si coglie dall’edificio degli uffici della presidenza.

Il tema della visibilità del marchio Barilla rispetto all’architettura degli edifici industriali e la sistemazione esterna trova poi un suo equilibrio nel disegno delle insegne progettate dall’architetto olandese Bob Noorda (1927-2010) nel 1989 che riguardano tutti gli stabilimenti del gruppo industriale. Queste insegne seguono istintivamente le sagome prismatiche blu delle confezioni di pasta, e le riproducono alla misura delle costruzioni, in orizzontale o in verticale, con una notevole forza di sintesi volumetrica, molto coerente con le spazialità rarefatte che a Pedrignano determinano il carattere più originale e ancora nitido, lungo l’autostrada.

Infine, tra il 1991 e il 1993 sono stati portati a completamento ancora dalla Austin due ulteriori edifici, progettati dall’architetto Vico Magistretti (1920-2006), per gli uffici, la presidenza e il centro di calcolo e per il secondo ristorante aziendale, architettonicamente in grado di confrontarsi dialetticamente, un vero contrappunto stilistico, rispetto al primo stabilimento per la pasta del 1970, quasi a voler sancire anche spazialmente un itinerario che dall’ingresso, con questi due edifici, conduce lo sguardo verso l’intero complesso.

L’impianto dell’edificio per uffici, è organizzato intorno a due corti interne quadrate che si allargano con grandi terrazze al terzo piano, più rappresentativo, destinato ad accogliere gli uffici per la presidenza e la grande sala del consiglio oltre al nucleo più rappresentativo della Collezione d’Arte.

La struttura, molto semplice, prevede un telaio in cemento armato in rilievo all’esterno per i primi due piani e un sovralzo (progettato in corso d’opera), in acciaio, disegnato come fosse il prolungamento del reticolo quadrato dei serramenti di facciata.

L’insieme dei due edifici, gli uffici e il ristorante (quest’ultimo più semplice), insistono figurativamente sulla ripetizione, sui fronti e nella struttura, del telaio a reticolo quadrato di colore bianco.

Tutto sembra efficace nell’introdurre il complesso della Barilla, secondo un percorso di visita sorprendente, precisatosi col tempo, che si apre su un giardino-piazza, con sculture e grandi alberi di platano, racchiuso tra i grandi volumi degli stabilimenti produttivi e dei sili, con dimensioni, spazialità, e drammaticità architettonica che ricorda, non poco, il chiaroscuro violento della piazza della Pilotta a Parma, come se fosse questo il solo modo conosciuto di costruire un pezzo di città, nuovo cuore di una storia e di una tradizione industriale.