Lo stabilimento Barilla a Barriera Vittorio Emanuele. Progetto Gian Luigi Giordani, 1957-1964

di Luca Monica

Il consolidamento nella sua antica sede di città dello stabilimento Barilla viene raggiunto con la realizzazione dell’edificio dell’architetto milanese Gian Luigi Giordani (1909-1977), il quale pochi anni prima, nel 1954, aveva progettato nel capoluogo lombardo uno stabilimento industriale farmaceutico per la Farmitalia con forti analogie con questo di Parma.

A Giordani (attivo con importanti esperienze nell’ambito dell’architettura del Razionalismo italiano degli anni Trenta), fu chiesto, come nell’impianto milanese, una tipologia di fabbrica a sviluppo verticale, riorganizzando, nel tessuto delle prime fasce periferiche industriali di Parma, una serie di edifici preesistenti.

Il nuovo edificio, come si legge chiaramente nei disegni di progetto e come emerge dal modello iniziale, avrebbe dovuto in parte sostituire e in parte sovrapporsi progressivamente alla maggior parte dell’intricato sistema di edifici costituitosi a partire dal primo nucleo originario del 1908, secondo un processo non lineare e intrecciato tra le competenze ingegneristiche, da parte dell’ufficio tecnico Barilla, e quelle architettoniche, da parte di Giordani.

I primi lavori progettati internamente all’ufficio tecnico nel 1955-57 riguardavano la zona ovest, rinnovando il blocco storico degli edifici per la produzione e ridisegnando il fronte interno sul piazzale di manovra, dal 1942 nuova zona di ingresso principale. Questo fronte, eseguito nel 1957 su disegno dell’ingegnere Ugo Vitali Mazza (1902-1978), sospeso su colonne, con due ordini di finestre a nastro, in seguito sarà mantenuto ma completamente riproporzionato da Giordani, togliendo tutto quanto poteva sembrare classicista (simmetrie, listelli di incorniciatura), ottenendo un carattere più astratto (finestre a nastro che girano negli angoli, continuità nei volumi), reintegrandolo in un nuovo intervento coinvolgente tutto il blocco, fino al nuovo, più rappresentativo corpo affacciato lungo la via Emilia. La corte interna si concludeva così, nel progetto di Giordani, con un fronte, poi non realizzato, che avrebbe dovuto estendersi fino a sostituire verso nord il panificio del 1930. Questa parte, che si vede chiaramente nel modello di studio, si allungava come una galleria vetrata, sospesa su pilastri, lasciando in trasparenza il telaio e i solai in cemento armato lievemente arretrati.

Interamente nuovo era invece il corpo che formava il bel fronte esterno lungo la via Emilia, nettamente individuato, anche tipologicamente, da un telaio strutturale in cemento armato, con ampi piani molto profondi (15 metri circa), aperti su una vetrata a courtain wall rivolta a sud, a raccogliere più luce possibile, memore di una tradizione razionalista ancora viva. L’insieme appariva sulla via Emilia disegnato con imprevedibili finezze compositive, quali il trattamento continuo delle superfici delle grandi masse, in vetro o in piastrelle bianche, con spessori esili o ridotti al nulla, nascosti negli spigoli (quale quello sud-est), a far perdere di peso alle campiture avvolgenti i volumi, fino all’elemento a torre, contenente un corpo scale, innestato nel terrapieno erboso, quasi un argine, disegnato dal paesaggista Pietro Porcinai (1910-1986), nel 1959-1960, che accentuava i differenti livelli del terreno tra la campagna parmigiana e la via Emilia (qui chiamata strada Elevata).

L’interno era ordinato secondo una maglia leggermente ruotata rispetto alla facciata sud, seguendo passi di pilastri e fili di costruzione più antichi, ed era contraddistinto da profondi spazi molto illuminati e da cavità più buie, fitte di impianti produttivi che, pur rinnovati nel tempo e adeguati a nuove esigenze tecniche, non hanno alterato la sostanza tipologica, come bene mostrano due diversi rilievi fotografici eseguiti negli stessi luoghi a distanza di anni, il primo negli anni Sessanta e un secondo alla fine degli anni Novanta.

Risulta sorprendente, soprattutto, l’allestimento a impalcatura metallica su grandi cavalletti della grande navata a doppia altezza che si attesta sulla torre scale a Est, posta sui due ultimi piani superiori, direttamente illuminata dall’alto, di servizio alle filiere all’inizio delle linee per la produzione della pasta.

Di questa vicenda costruttiva colpisce il “metodo” della progettazione, sempre ancorata al lavoro dell’ufficio di ingegneria interna alla Barilla, che organizzava la disposizione delle macchine e la distribuzione degli spazi, accompagnando la progettazione architettonica vera e propria di Giordani nello sviluppo dei disegni esecutivi. I numerosi dettagli costruttivi ancora conservati presso l’Archivio Storico, per la partizione delle facciate, per i serramenti della grande vetrata e per il raffinato cornicione a Sud, dimostrano la capacità di ricondurre anche le fasi architettoniche più delicate alla fisiologia del cantiere industriale.

L’insieme dei caratteri di questo edificio, la struttura verticale, la composizione delle pareti in piastrelle e in vetro, la trasparenza e la luminosità, il rapporto con il terreno a prato, rimandavano tutti ad alcuni concetti ideali sulla tipologia della fabbrica. Soprattutto l’idea di «una casa di vetro», come titolava nel 1962 un articolo apparso nel giornale interno dell’azienda¹, a sottolineare il concetto di una società comunitaria, che si riconosceva nelle architetture dei propri stabilimenti, nella diffusione della luce dalle grandi vetrate, che la tradizione razionalista aveva imposto a dare più dignità umana ai luoghi di lavoro, nel gioco astratto delle igieniche tessiture a piastrelle all’interno e all’esterno, come nei piccoli e antichi laboratori di produzione del pane e della pasta, fino alla dichiarata individualità dell’edificio, che come in un “palazzo pubblico” si stagliava nella periferia di Parma, come solo poche fabbriche, nella recente storia dell’industrializzazione italiana, erano state in grado di esprimere.

La sua dignità architettonica e l’uso dei materiali lo caratterizzava ben oltre la sua natura di edificio industriale, facendolo partecipare pienamente al tessuto monumentale della città.

La concatenazione delle demolizioni e delle nuove edificazioni che avrebbero dovuto portare l’edificio di Giordani alla rapida e integrale sostituzione del complesso industriale antico, in realtà si incrociavano con una serie di rapide trasformazioni nella struttura aziendale, economica e tecnica della Barilla al punto da porre questo progetto rapidamente ai margini delle potenzialità imprenditoriali dell’intero gruppo.

Da una parte l’attività del vecchio panificio era stata chiusa nel 1952, concentrando così la produzione nel settore della pasta. Poi in quegli anni si perfezionavano i processi di automazione delle linee produttive, introdotte già nello stabilimento nel 1957, anche se ancora organizzate verticalmente. Inoltre il complesso produttivo ben presto raggiunse i massimi volumi di produzione consentiti dagli spazi disponibili, rivelatisi quantitativamente inadeguati allo sviluppo del mercato. Infatti da subito emerse la necessità di un nuovo complesso, ipotizzato, secondo uno studio del 1964 lungo l’Autostrada del Sole². Ciò nonostante lo stabilimento di Barriera Vittorio Emanuele fu pienamente utilizzato fino alla sua definitiva chiusura e successiva demolizione nel 1999. L’edificio non si dimostrò tuttavia mai anacronistico nella tipologia rispetto alle esigenze tecniche dell’attività industriale (quella maggiormente specializzata rispetto alla tradizione alimentare di Parma, destinata fino alla fine a linee di produzione della pasta all’uovo e pasta ripiena), ma la sua dismissione coincise con l’idea di non poter più proseguire il ciclo di successive trasformazioni consentite da questa area industriale, oramai troppo dentro al tessuto della città per le dimensioni e gli accessi necessari ai volumi prodotti oggi.

È infatti proprio a partire dal 1964, appena entrato in funzione lo stabilimento di Giordani, che la Barilla acquista le nuove aree per lo stabilimento di Pedrignano, sorto a partire dal 1968 e in attività dal 1970, caratterizzato da più spinti processi di automazione su macchine transfer, estendendo in orizzontale linee produttive e tipologia industriale.

La vita dello stabilimento di via Veneto, oggi viale Barilla, durerà, attraverso progressive fasi di smantellamento, fino al 30 giugno 1999, data della sua definitiva chiusura e inizio dei lavori di demolizione.

Ma se l’edificio di Giordani forse non era più aggiornabile e riconfigurabile per un’attività industriale logisticamente ed economicamente perseguibile, viene spontaneo chiedersi fino a che punto la sua trasformabilità non ne avrebbe potuto consentire la sopravvivenza (insieme alla bella casa dell’architetto Karl Elsässer del 1933), al posto della laboriosa opera di demolizione (testimoniata in un documentato resoconto³), dato che oramai la precisazione formale di questa architettura e la sua qualità esecutiva l’avevano resa partecipe al paesaggio monumentale della città, emergendo ben oltre la sua funzione originaria.

NOTE

1) Una casa di vetro, in “Notizie Barilla”, 1962, aprile, p 1.
2) PIETRO GENNARO E ASSOCIATI, Promemoria su alcuni criteri di scelta tra alternative di investimento. Dattiloscritto, 1964 [ASB, O, Cartella Stabilimenti – Pedrignano].
3) Stabilimento Barilla di Parma: lavori di bonifica e demolizione, in Recycling, a. 3, n. 3, settembre 1999, pp. 66-71.