Evoluzione del logo Barilla

Ab ovo incipere: il logo Barilla

Patrizia Musso – Andrea Semprini

L'evoluzione del Marchio Barilla

Il logo, da Cenerentola a protagonista

Al giorno d’oggi, in un contesto sociale ed economico dove la comunicazione è onnipresente, l’importanza del logo delle marche può sembrare un fatto scontato. Nessuna marca contemporanea si sognerebbe di trascurare un elemento così importante del suo arsenale comunicativo. Anzi, anche quando le risorse aziendali sono scarse, un investimento cui raramente si rinuncia è proprio quello riguardante la creazione di un logo e di un’identità visiva per la marca. Ma le cose non sono sempre andate così. Si può dire che per molto tempo, diciamo fino a una quindicina d’anni fa, il logo è stato considerato come un elemento secondario, ai limiti del decorativo. Tra le varie possibilità di espressione della marca, tutta l’energia e le risorse sono state essenzialmente riposte nella comunicazione pubblicitaria. Piano piano però, le cose sono cambiate ed esiste oggi un relativo consenso sull’importanza di altre forme di espressione della marca, tra cui in primis il logo e l’identità visiva. Come possiamo spiegare questo cambiamento di prospettiva?

Ci sono almeno cinque fattori principali che aiutano a spiegare questa evoluzione e che meritano d’essere ricordati brevemente. Il primo concerne la “crisi” della comunicazione pubblicitaria tradizionale. I costi crescenti della pubblicità di massa, l’affollamento dei messaggi e la frammentazione dei gusti e degli stili di vita rendono sempre più costosi e proporzionalmente sempre meno efficaci i messaggi pubblicitari tradizionali, e in particolare quelli diffusi attraverso il mezzo televisivo. Questa crisi di credibilità e di legittimità della pubblicità ha permesso di volgere lo sguardo altrove e interessarsi ad altre forme di comunicazione, tra cui il logo, che sono così uscite dal loro angolino.

Un secondo fattore riguarda la maggiore attenzione che si attribuisce oggi alla continuità del discorso della marca e non solo alla sua novità o innovazione. La comunicazione pubblicitaria tradizionale tende a valorizzare l’impatto, cerca l’attenzione del pubblico e dunque si trova nell’obbligo d’essere sempre originale e innovativa. Questi aspetti non hanno perso la loro importanza nella definizione delle strategie di marca, ma vengono sempre più affiancati da una maggiore sensibilità per quei valori che contraddistinguono il brand – come le sue radici, le sue origini, la sua storia – e che gli consentono di perdurare nel tempo. Il logo è un elemento che, sebbene sottomesso, come tutte le manifestazioni della marca, all’evoluzione, tende a manifestare una maggiore stabilità nel tempo e quando evolve tende a farlo in modo progressivo, talvolta addirittura impercettibile. La volontà di sottolineare la perennità della marca trova dunque nel logo un alleato fedele.

Un terzo fattore può essere identificato nella crescente preoccupazione delle marche di stabilire una relazione forte e costante con i propri pubblici. La comunicazione pubblicitaria non permette di raggiungere questo obiettivo se non in maniera insoddisfacente. A meno di effettuare degli investimenti colossali, la pubblicità è presente solo per brevi periodi nel contesto di ricezione. Si tratta dunque di una presenza intensa ma breve, mentre la logica della relazione presuppone una presenza meno intensa, ma costante. E il logo, invece, è particolarmente a suo agio proprio in questa logica di relazione. La sua presenza è senza dubbio più discreta, ma infinitamente più sistematica e durevole di quella delle grandi operazioni di comunicazione, che segnano maggiormente l’immaginario, ma non permettono di alimentare la relazione fra la marca e il pubblico nel quotidiano.

Un quarto fattore riguarda la crescente importanza attribuita alla dimensione estetica e visiva della marca. L’universo della marca è infatti relativamente astratto, è fatto di identità, di valori, di strategie, di concetti, di significati e di emozioni. Tutti questi aspetti divengono concreti per i pubblici della marca solo quando si trovano incarnati in una manifestazione visibile e percepibile di quest’ultima. La dimensione visiva non è certo l’unico modo per dare concretezza ai valori della marca. Il contatto con un materiale, il suono di un motore, l’aroma di un biscotto, il sapore caratteristico di un sugo possono esprimere altrettanto bene i valori della marca. Ma l’aspetto visivo resta dominante e soprattutto permette delle sfumature di significato più difficili da realizzare con gli altri sensi. Il logo, in quanto elemento chiave dell’identità visiva della marca, permette dunque di tradurre i valori di fondo della marca in un insieme di colori, di tratti grafici e di forme geometriche relativamente astratte.

Infine, il quinto fattore può essere considerato come una sintesi dei primi quattro, perché concerne la presa di coscienza dei responsabili aziendali dell’importanza determinante della marca nello sviluppo delle strategie aziendali attuali. Come abbiamo visto, la marca è un fenomeno astratto, un modo di veicolare dei significati e delle promesse attrattivi e distintivi rispetto a quelli delle marche concorrenti. Il logo permette di condensare ed esprimere in un batter d’occhio questi valori, significati e promesse. Esso funziona secondo il principio semiotico della metonimia, secondo il quale una parte può esprimere un tutto in modo sintetico e dunque più economico. È una sintesi, un condensato di senso, perché in pochi tratti può riassumere la filosofia e il patrimonio storico della marca, i suoi valori, il suo impegno nei confronti dei suoi pubblici. E così, una volta memorizzata la gestalt del logo, è sufficiente percepirla un attimo perché essa emani la sua significazione: identificazione della marca e richiamo metonimico della totalità dei suoi discorsi e della sua identità avvengono praticamente in modo simultaneo.

Il riconoscimento di un logo impegna delle facoltà di ordine percettivo che aggirano in parte la riflessione intellettuale. Il logo viene raramente letto o interpretato, esso è piuttosto riconosciuto e compreso. Esso comunica in maniera diretta, senza dover razionalizzare o giustificare il suo discorso e dice della marca molto di più di quanto non mostri effettivamente, secondo il principio d’economia evocato in precedenza. Il logo rappresenta quindi una via d’accesso privilegiata all’identità di marca, una piccola porta visiva che ci fa immergere istantaneamente nel mondo valoriale della marca. Riprendendo l’osservazione di Jean-Marie Floch, “l’identità visiva è differenza, nel senso che assicura il riconoscimento e la buona riuscita dell’azienda e che esprime la sua specificità. D’altra parte, l’identità visiva è permanenza in quanto rende conto del perdurare dei valori industriali, economici e sociali dell’azienda. Il permanere non deve essere considerato in questo caso come una semplice ripetizione, ma come un divenire con una sua logica e come una successione orientata”.

 


1. FLOCH Jean Marie, Identità visive. Costruire l’identità a partire dai segni. Milano, Franco Angeli, 1997, p. 60.

Il logo, crocevia di significati

Questa rapida carrellata sull’evoluzione del discorso di marca e del contesto socio-economico permette di meglio comprendere perché oggi il logo goda di una ben più grande attenzione rispetto al passato. Cerchiamo ora di approfondire alcune caratteristiche del funzionamento del logo, che ci permetteranno di introdurre l’analisi del logo Barilla.

Nel paragrafo precedente abbiamo sottolineato come la permanenza costituisca il tratto fondamentale di un logo, il fatto che esso non sia sottoposto al principio dell’innovazione continua e della novità come avviene per altre manifestazioni della marca, come i prodotti o la comunicazione pubblicitaria. Ovviamente anche il logo evolve, e la storia del logo Barilla ne è un esempio particolarmente evidente. Ma la sua evoluzione è di norma diluita nel tempo, spesso su un arco di decenni e nella maggior parte dei casi si cerca di apportare ritocchi progressivi, senza stravolgere i tratti essenziali che definiscono l’identità del logo stesso e che ne facilitano la riconoscibilità. Esistono logo che sono rimasti quasi identici per oltre cinquant’anni, come il logo Shell, Michelin, o Kodak. La ragione principale di questa stabilità è la natura per così dire prototipica del logo, il suo ruolo di riferimento stabile all’interno di un discorso – quello della marca – dominato dal cambiamento. Da questo punto di vista, il logo si situa più vicino ai valori fondamentali della marca, al suo nocciolo duro, dove viene custodita l’identità stessa della marca. È proprio questa prossimità con l’identità profonda che permette di comprendere la molteplicità delle logiche comunicative del logo, il suo indirizzarsi a più pubblici, tra cui, non ultimo, all’azienda stessa.

Possiamo schematizzare il funzionamento semiotico del logo (ovvero il suo modo di costruire e comunicare i suoi significati) in quattro direzioni: verso i pubblici della marca, verso il contesto esterno della marca, verso il contesto interno della marca e verso la storia e la cultura aziendale. Queste quattro grandi aree di significazione possono poi essere distinte in innumerevoli sub-aree. Limitiamoci qui a ricordare quelle più pertinenti per l’analisi del logo Barilla.

I pubblici. Si tratta essenzialmente dei consumatori della marca. Il logo veicola valori di consumo (ad esempio, la bontà suggerita dal logo del gruppo Danone) o può evocare i benefici funzionali o simbolici legati a una frequentazione della marca (la libertà del logo Motorola, l’energia indomita del logo Ferrari). Nel caso di Barilla, marca leader e con una fortissima penetrazione in un mercato fondamentale come quello della pasta, la nozione di consumatore si sovrappone praticamente a quella di pubblico.

– Il contesto esterno della marca. Si tratta del contesto socio-economico, socio-culturale ed estetico nel quale il logo si trova immerso e dal quale dipende tanto la sua concezione e il suo significato che l’interpretazione che viene fatta di tale significato. Vedremo per esempio che l’evoluzione del logo Barilla, soprattutto nel periodo tra le due guerre, è stata fortemente legata ai codici estetici e grafici in auge in quell’epoca.

– Il contesto interno della marca. Si tratta in primo luogo dei prodotti commercializzati dalla marca, nel nostro caso la pasta di semola e, in misura minore, la pasta all’uovo. Il logo può comunicare una specificità del prodotto (il blu chiaro del logo Danone per ricordare il latte), una caratteristica del processo di lavorazione (il blu chiaro del logo Gelati Motta, per ricordare il freddo), una competenza specifica (l’universo Art Déco del logo Antica Gelateria del Corso per evocare la qualità quasi artigianale della produzione).

– La storia e la cultura aziendale. In questo caso il logo dà indicazioni sull’identità dell’azienda stessa, che può essere espressa sia da un nome familiare, come è il caso per Barilla, sia da un’evocazione dei valori che animano il funzionamento dell’azienda, sia da un riferimento alle componenti dell’azienda: risorse umane, apparato produttivo, competenze specifiche.

Ovviamente, ogni logo presenta una miscela più o meno completa di tutti questi fattori. Ci sono logo che insistono solo su una dimensione, mentre altri toccano vari aspetti simultaneamente. Questi ultimi sono spesso i logo più interessanti in quanto sfruttano a fondo la capacità di una forma figurativa a comunicare simultaneamente più significati (polisemia). Se a questi aspetti aggiungiamo la dimensione storica, che permette di seguire l’evoluzione di un logo su più decenni – nel caso del logo Barilla oltre un secolo – ci troviamo di fronte a un oggetto d’analisi dinamico e che apre innumerevoli rinvii alla realtà economica, sociale, estetica e industriale dell’Italia del secolo scorso. L’analisi di un logo, effettuata secondo l’approccio socio-semiotico, permette dunque di ricostruire un frammento della storia industriale dell’azienda e della storia culturale del Paese. L’archivio storico Barilla conserva un numero elevato di logo, rinnovati in permanenza soprattutto tra le due guerre. Per motivi di semplicità e di chiarezza, proponiamo di raggruppare questo corpus in tre grandi momenti. La fase detta del Putén (vedremo tra poco il perché di questo termine dialettale parmigiano, letteralmente bambino), la fase della firma e la fase dell’ovale, tuttora in corso.

Il Putén (1910-1936)

Immagine 1 – Logo Barilla 1908

Immagine 2 – Garzone Sigillo

Immagine 2 – Garzone Nuovo Marchio Aziendale


Benché l’attività commerciale della Barilla risalga al 1877, ed esista una carta intestata documentata già nei primi anni del Novecento (immagine n.1), il primo “logo” appare solamente nel 1910. La produzione e lo smercio dei prodotti Barilla si sono considerevolmente sviluppati e in quell’anno viene inaugurata fuori le mura del centro storico di Parma una vera e propria fabbrica per la produzione di paste alimentari, con una potenzialità produttiva di 80 quintali giornalieri. Non a caso, è proprio in questo momento importante della storia aziendale che Barilla sente il bisogno di dotarsi di un elemento figurativo che simbolizzi la propria identità. La raffigurazione (immagine n.2) utilizza uno stile tipico delle illustrazioni che cominciano proprio in quegli anni a diffondersi sulle riviste della nascente industria culturale italiana (Domenica del Corriere, Illustrazione Italiana). Osserviamo questa illustrazione nei dettagli. La presenza dell’uovo gigantesco salta sùbito agli occhi. La sua taglia manifestamente sproporzionata permette di costruire un’iperbole visiva e di utilizzare un procedimento divenuto più tardi familiare nel linguaggio pubblicitario. La dimensione dell’uovo permette, a livello di contenuto, di comunicare la grande quantità di uova presente nella pasta Barilla e, a livello di organizzazione visiva dell’immagine, la loro centralità. Se osserviamo la costruzione formale del logo, infatti, possiamo vedere che essa si organizza su un asse verticale centrale, dove si trova il garzone di bottega, e che l’uovo si trova al vertice di questa linea mediana. La posizione dell’uovo e naturalmente la sua taglia gigantesca ottengono così un duplice obiettivo. Da un lato esse assicurano l’impatto del logo, il fatto d’attirare l’attenzione focalizzando lo sguardo sull’uovo, dall’altro pongono l’uovo come protagonista della piccola storia che viene narrata.

Perché di vera e propria narrazione si tratta. Il logo propone un micro-racconto organizzato intorno al momento delicato della preparazione dell’impasto. Vediamo la madia piena di farina bianchissima colta proprio nel momento cruciale in cui accoglie l’uovo; vediamo il mastello a sinistra che contiene altra farina per correggere, se necessario, le proporzioni dell’impasto. Infine, lo sguardo del garzone – il putén – merita la nostra attenzione. Esso è rivolto verso di noi, verso il fuori quadro, verso l’osservatore. Si tratta di un tratto non poco originale per un dispositivo comunicativo di quest’epoca. Lo sguardo diretto all’osservatore, e dunque al potenziale consumatore, sembra ammiccare, evocare la preparazione colta nel pieno divenire, suggerire, attraverso lo sguardo volto verso di noi, di guardare quello che si sta preparando: “Guarda che magnifico impasto sto preparando sotto i tuoi occhi”. Lo sguardo del garzone può ugualmente essere diretto al mastro artigiano, come per ricevere da costui ulteriori istruzioni o un cenno di conferma sulla correttezza dei gesti. In questo caso, l’effetto di senso è quello di sottolineare la competenza, il saper fare artigiano, la cura e l’attenzione posta nella lavorazione del prodotto.

Questo logo così, sceglie due opzioni di significato (oggi diremmo di posizionamento). La prima scelta è di focalizzarsi sul processo di produzione, piuttosto che, per esempio, sul prodotto finito. La seconda è di valorizzare la dimensione manuale e umana della produzione. Dicevamo prima che forse non è un caso se, proprio quando l’Azienda fa un passo importante verso l’industrializzazione della produzione, con l’apertura della prima vera fabbrica, essa sente il bisogno di esprimere il suo attaccamento alla tradizione artigianale da cui essa stessa proviene e alla cura del lavoro ben fatto. Ricordiamoci che siamo nel 1910 e che l’industria alimentare italiana è in questi anni praticamente inesistente. Pioniere dell’industrializzazione della produzione, la marca cerca di rassicurare i propri clienti mettendo in scena un mondo di garzoni e di botteghe artigiane proprio quando queste iniziano a scomparire. Un altro aspetto, di tipo culturale questa volta, ci aiuta a comprendere l’utilizzo di una raffigurazione così esplicitamente narrativa. In effetti, una legge promulgata pochi anni dopo l’Unità aveva esplicitamente predisposto che, conto tenuto dell’alto tasso di analfabetismo degli italiani, i marchi industriali permettessero attraverso la raffigurazione di comprendere il tipo e le caratteristiche del prodotto. L’immagine doveva permettere di aggirare la decodifica dei testi, allora inaccessibile a una non piccola frangia dei consumatori.

Paradossalmente, ritroviamo un secolo dopo, in epoca di mondializzazione, un utilizzo dell’immagine in una logica analoga. La straordinaria esplosione di pittogrammi sulle confezioni di prodotti alimentari permette, ai consumatori di tutto il mondo, di conoscere e riconoscere i prodotti e le loro caratteristiche attraverso raffigurazioni esclusivamente figurative. Il ruolo delle immagini nel linguaggio di consumo attuale è divenuto talmente importante che si può addirittura parlare dell’apparizione di una nuova lingua mondializzata composta esclusivamente di ideogrammi e di geroglifici (si pensi al caso dello swoosh Nike). Rimaniamo ancora un istante nel contesto sociale per sottolineare un ulteriore effetto di senso legato alla rappresentazione iperbolica del tuorlo d’uovo. In un’Italia ancora largamente pauperizzata e dove buona parte della popolazione è lungi dal mangiare in modo completo, il fatto di marcare la presenza dei tuorli, cioè di proteine animali, permetteva di sottolineare la possibilità di consumare con la pasta all’uovo un alimento relativamente completo, dove venivano riuniti carboidrati e proteine.


²Il marchio viene registrato precisamente il 17 giugno 1910. L’Autore del bozzetto è Emilio Trombara (1875-1934).

Le firme (1936-1954)

Immagine 3 – Logo Barilla 1916

Immagine 4 – Logo Barilla 1922

Immagine 5 – Logo Barilla 1927

Immagine 6 – Logo Barilla 1929

Immagine 7 – Logo Barilla 1938

Immagine 8 – Logo Barilla 1939

Immagine 9 – Logo Barilla 1930

Immagine 10 – Logo Barilla 1934


L’analisi che precede permette di comprendere meglio perché verso la fine degli anni Trenta il logo del Putén appare ormai obsoleto e viene sostituito. Senza essere scomparso, l’analfabetismo è in netto regresso. Viene meno dunque la necessità di utilizzare un’immagine fortemente descrittiva per illustrare la produzione dell’azienda. D’altro lato, senza essere ricca, l’Italia della fine degli anni Trenta non muore più di fame. Viene meno anche la preoccupazione di insistere sulla composizione del prodotto e in particolar modo sulla presenza delle uova nell’impasto. A questi cambiamenti nel contesto socio-economico, si devono aggiungere i cambiamenti avvenuti nell’Azienda. L’attività della Barilla ha assunto una scala industriale di considerevoli dimensioni. La figura del Putén, con la sua evocazione di un mondo di botteghe artigiane e di un’epoca quasi ottocentesca, rischia di entrare in conflitto con una realtà produttiva in via di automatizzazione. La produzione si orienta inoltre sempre più verso la pasta di grano duro, e rende quindi meno giustificata l’insistenza sull’uovo che era uno degli elementi forti del logo.

Si apre così una fase, che durerà circa vent’anni, in cui il logo aziendale viene ridotto alla sua più semplice espressione, all’espressione del nome Barilla. Il logo del Putén valorizzava soprattutto l’Azienda Barilla, i suoi garzoni, il suo saper fare, il processo di lavorazione e i suoi ingredienti. Il nuovo logo è invece una firma, che focalizza l’attenzione sul nome Barilla, giocando sulla dualità di un nome che designa sì un’azienda, ma anche una famiglia che si sta trasformando in vera e propria dinastia industriale. Non a caso le numerose varianti tipografiche della scrittura del nome Barilla che appaiono lungo questi due decenni hanno in comune il fatto di non tollerare alcuna presenza che possa distrarre dalla focalizzazione sul nome. È importante sottolineare che la fase delle firme copre anche un periodo particolarmente caotico della storia italiana: i deliri imperiali mussoliniani, le sanzioni, la guerra, i razionamenti alimentari, la ricostruzione. Il ricorso al nome, alla sua sobrietà, possono anche essere interpretati come una cauzione di stabilità e di rigore in un contesto dominato dall’incertezza e dalla speranza. Mettere in primo piano il proprio nome, soprattutto quando esso corrisponde a quello dell’azienda, significa impegnarsi, offrire una garanzia di continuità, sottoscrivere un patto tacito con il proprio pubblico.

Da un punto di vista formale, possiamo osservare come lo stile della grafia del nome Barilla abbia subìto delle evoluzioni in questo periodo, muovendosi lungo due direzioni: una transizione dalla solidità alla leggerezza e una transizione dalla stabilità al movimento. Per quanto concerne la prima tendenza, si possono osservare le tipografie compatte e spesse delle prime firme, l’uso esclusivo del colore nero, l’allineamento orizzontale delle lettere, la tipografia che evoca un testo stampato piuttosto che manoscritto (immagini n. 3 e 4). I valori che si vogliono esprimere con questi primi nomi sono manifestamente di rigore, di rettitudine, di forza, di solidità. Si tratta di valori rassicuranti e virili, destinati a confermare la fiducia dei consumatori e a tranquillizzare tacitamente le loro inquietudini. Poi, progressivamente, i logo iniziano a trasformarsi. Si alleggeriscono, si diagonalizzano per imprimere dinamismo là dove in precedenza si cercava di esprimere solidità e stabilità. Vediamo apparire il colore, il rosso in particolare, riferimento abbastanza esplicito al rosso del tuorlo del logo d’inizio secolo e il blu, che diverrà anni dopo un colore fondamentale per la marca. La grafia diventa anche più manoscritta, più personale, fino ad assomigliare ad una e vera propria firma. La sobrietà delle prime firme cede il passo a una grafica più gaia, talvolta quasi leziosa. Appaiono ombre, spessori, svolazzi, ghirigori, contorni di vario tipo (immagini n. 5, 6, 7, 8).

Osservati nel loro insieme, questi diversi nomi ci offrono anche una testimonianza delle mode grafiche e dei gusti estetici dell’epoca. Anche se uno degli obiettivi principali di un logo è quello di assicurare l’unicità e la distintività della marca che rappresenta, nessun logo riesce totalmente a sfuggire al gusto e agli stili dell’epoca in cui viene creato. In certi logo, per esempio, la B di Barilla assomiglia come una goccia d’acqua a quella dei Baci Perugina o a quella di Bauli (immagine n. 9, 10). Ed è anche in questo dialogo intertestuale con altri logo della stessa epoca che la marca mostra quanto essa sia immersa nella sua epoca e rende visibile l’osmosi permanente che si stabilisce tra valori aziendali, contesto socio-culturale e forme espressive.

La sintesi dell’ovale (1952-)

Immagine 11 – Logo Barilla 1956

Immagine 12 – Logo Barilla 1969

Immagine 13 – Logo Barilla 1996

Immagine 14 – Logo Barilla 2000


Nel 1952, l’azienda incarica Ernesto Carboni, grafico e architetto parmense fortemente legato alla cultura figurativa del Post-cubismo francese, di ripensare integralmente il logo Barilla. Come vedremo, anche se più volte rimaneggiata, è l’intuizione iniziale di Carboni che resta al centro del dispositivo visivo del logo attuale.

Vediamo innanzitutto il contesto socio-economico e socio-culturale all’interno del quale interviene questo cambiamento. L’Italia è in piena ricostruzione e si annunciano i primi segni dell’industrializzazione di massa e della società dei consumi. Vengono anche introdotte le prime tecniche di marketing moderno importate dagli Stati Uniti. L’azienda è tra le prime, per esempio, a credere nella pasta confezionata, che allora (e ancora per qualche anno) viene venduta sfusa e pesata dal dettagliante. In termini di sviluppo, l’Azienda entra in una fase di crescita importante, che, con qualche alto e basso, continua fino ai giorni nostri. È forse questa proiezione verso il futuro e verso la nuova società che nasce dalle rovine del conflitto che permette di situare la scelta del logo di Carboni. Esso infatti può essere considerato una sintesi delle due fasi precedenti, quella del Putén e quella delle firme. Dalla prima fase, viene recuperata l’idea dell’uovo, dalla seconda la centralità della firma Barilla. Il logo del 1954 sembra dunque voler affermare al tempo stesso la continuità della marca e della storia aziendale e la volontà di fare di questa storia il trampolino per lo sviluppo a venire. Perché infatti tanto per l’uovo che per la firma non si tratta di un recupero di tipo nostalgico e citazionale, in cui gli elementi vengono ripresi tali e quali, ma di un’inspirazione intertestuale volta a produrre nuovi significati.

Partiamo dal caso dell’uovo. Nel nuovo logo di Carboni, il riferimento all’uovo diviene puramente geometrico e astratto. L’uovo del Putén designava un vero uovo, anzi un uovo gigantesco, per evocare i principi nutritivi, i preziosi ingredienti del prodotto, il processo di lavorazione. L’uovo di Carboni, invece, è una forma ovale che se da un lato ricorda, ma in modo ellittico e molto stilizzato, nel gioco tra fondo bianco e macchia di rosso, il vero uovo, dall’altro evoca i valori plastici della forma ovoidale chiusa: l’armonia, la perfezione, la linearità, la rotondità, la delicatezza. Un ovale che – come ben Carboni sapeva grazie alle sue indagini sulla psicologia della Gestalt – crea un effetto di unità, armonia, equilibrio. Siamo quindi di fronte a un pattern strutturale che permette di fissare le basi del patto fiduciario fra azienda e consumatore. (immagine n. 11)

Per quanto riguarda il riferimento alla firma Barilla, notiamo, in primo luogo, come la grafia scelta da Carboni resti tributaria dell’estetica di prima della guerra. In secondo luogo, e da qui emerge un secondo elemento di continuità con la fase precedente, la collocazione nel logo della firma Barilla porta a considerare, senza difficoltà, la centralità del nome come metafora della centralità della famiglia Barilla nella vita della marca. Contrariamente a tante marche alimentari di origine familiare entrate nel portafoglio di gruppi industriali, come Galbani, Locatelli o Motta, la marca Barilla e l’azienda Barilla sono ancora possedute e gestite in prima persona dai membri della omonima famiglia.

Nel 1969 Barilla chiede alla Lippincott & Margulies, società internazionale di consulenza nel campo del design e delle comunicazioni visive con sede in America, di studiare l’immagine della Società. L’Azienda ha acquisito un’ottima immagine – appare contraddistinta da attributi di prestigio, di qualità, di fiducia -, ma non viene percepita come particolarmente moderna. Il mercato è cambiato, con la crisi dei modelli e i nuovi stili alimentari che mettono in crisi il consumo di pasta, dando vita a un clima che a partire dagli anni Settanta e fino ai primi anni Ottanta costringerà Barilla ad attivare un processo di diversificazione della produzione (Barilla ritorna al pane, produce pizza, ragù e preparati per dolci; nel 1975 nasce Mulino Bianco).

La rivisitazione della Lippincott & Margulies dà al logo una sua intrinseca coerenza tra le diverse componenti plastiche e figurative (immagine n. 12). Le lettere perdono gli svolazzi e i tratti pieni e fini tipici della scrittura manoscritta e vengono rappresentate con un’estetica sobria, che gioca a fondo sul ritmo tra pieni e vuoti e sul doppio contrasto tra il fondo bianco, la macchia rossa e le lettere bianche inscritte sul fondo rosso ma anche “ritagliate” nel rosso come per ritrovare il bianco soggiacente. Questa tipografia, praticamente invariata dal 1969, dominata dalle linee nette e da una forte presenza dei vuoti che permettono al colore rosso di riapparire regolarmente e di occhieggiare tra la lettere e all’interno della ‘B’ e delle ‘a’, attribuisce alla gestalt globale del logo un certo brio, un ritmo sostenuto, delle connotazioni di allegria e di giocosità.

Gli effetti di senso di un logo così sofisticato sono numerosi e potenti. Le linee arrotondate e l’evocazione della forma ovale rinviano all’universo della maternità, della fertilità, della generosità. Si tratta di valori particolarmente forti e coerenti per una marca di prodotti alimentari, dove la dimensione affettiva e la questione della fiducia giocano un ruolo importante. Il colore rosso in questo contesto svolge un doppio ruolo, figurativo e semantico. Da un punto di vista figurativo, esso permette di focalizzare lo sguardo e attribuisce un considerevole impatto al logo, che si apparenta ad un bersaglio. La progressione circoncentrica suggerita dall’alternarsi di colori e di dimensioni rafforza quest’effetto di focalizzazione sul centro del logo. Il cromatismo rosso naturalmente rende il logo particolarmente visibile. Da un punto di vista connotativo, il rosso, benché colore poco presente nell’universo alimentare, può eventualmente suggerire valori di intensità, di gusto, di sapore. La posizione leggermente eccentrica della macchia di colore centrale imprime dinamismo all’insieme, suggerendo un movimento da destra verso sinistra e dunque un’idea di progressione che può essere letta tanto come valore di marca, nel senso di una marca dinamica e in perenne evoluzione, che come espressione delle ambizioni dell’azienda, decisa a rinnovarsi e a progredire nell’universo dei consumi.

Sulla confezione progettata nel 1969 sempre da Lippincott & Margulies, il nuovo logo viene inserito entro una “lingua” bianca. Si tratta di un’area dai bordi smussati che sul pack riproduce l’effetto visivo di un riflettore (quasi una sorta di “occhio di bue” cinematografico) che inquadra e investe di luce il logo, mettendolo in primo piano, portandolo alla ribalta. Una valorizzazione visiva che aumenta l’impatto dell’ovale rosso sulla confezione blu. Visti su una confezione distesa, “lingua” e logo acquistano la fisionomia di una tovaglia bianca sulla quale è appoggiato un piatto di pasta condita al pomodoro. Ad aumentare questa connotazione gastronomica e culinaria contribuisce la rappresentazione fotografica del prodotto: esso è nella pentola al momento della cottura e c’è un mestolo con cui la pasta viene offerta a un ipotetico osservatore, che viene così direttamente coinvolto nella scena. Attraverso la combinazione di questi elementi, quindi, il pack racconta all’osservatore una microstoria della pasta Barilla: dal suo uso al momento del consumo.

La rivisitazione del pack realizzata nel 1985 (ad opera di Vittorio Mancini) trasforma la “lingua” in un rettangolo, un’area di servizio attraverso cui Barilla presenta ai suoi consumatori una serie di informazioni, in maniera sintetica e puntuale: al logo aziendale e alla denominazione del tipo di pasta, seguono l’immagine del formato (visto di profilo e in sezione) e i tempi di cottura. Il tutto secondo una logica di indicizzazione delle informazioni: dalla fonte del messaggio (il nome del produttore) al messaggio stesso (le “regole d’uso” del prodotto). Il nuovo dispositivo grafico funziona come una vera e propria etichetta che offre note essenziali sul prodotto.

Questo insieme di valori ben organizzati permette di spiegare la grande stabilità del logo nel tempo. Dopo l’intervento del 1969, che ha sensibilmente modificato il logo iniziale di Carboni e che ha installato i valori attuali, il logo è rimasto praticamente identico. Nel 1996 il designer Gio’ Rossi lo ha sottoposto a qualche lieve ritocco (immagine n. 13), che non modifica i significati di fondo. La forma ovale è stata allargata, ma colori, tipografia e struttura generale sono rimasti invariati. Nel 2000, in occasione del lancio delle nuove confezioni, è stato effettuato un leggero stiramento e abbassamento dell’ovale (immagine 14). Da un punto di vista semiotico, questa continua evoluzione del logo, soprattutto nella geometria dell’ovale, può essere interpretata come una metafora della continua crescita della marca e dell’allargamento delle sue gamme e delle tipologie di prodotti. Da un punto di vista funzionale, essa può essere messa in relazione con le nuove missioni attribuite al logo nel contesto di mercato attuale.

Nel 2022 il logo Barilla (immagine n. 19) ha subito un cambiamento notevole: il richiamo alla pasta all’uovo lascia il posto ad un ovale rielaborato, applicabile ad ogni prodotto. C’è una rinnovata simmetria che conferisce maggiore equilibrio e stabilità. L’indicazione della data di fondazione è la più chiara affermazione dell’eredità e dell’esperienza Barilla. Per il colore è stato scelto un rosso più intenso a testimoniare la forte passione di Barilla per la pasta e che funziona molto bene come complemento al blu della confezione.

In chiusura di quest’analisi ritroviamo così quanto detto in apertura sul nuovo ruolo e l’importanza acquisita dal logo nel contesto di mercato attuale. Nelle condizioni di concorrenza e di saturazione dei mercati attuali, il logo diviene un messaggero permanente della marca, proprio perché flessibile nell’uso e visibile dappertutto. La sua presenza è in particolar modo fondamentale sulle confezioni. Distribuita praticamente in tutti i punti vendita alimentari, dall’ipermercato al piccolo dettagliante di quartiere, la scatola blu di pasta Barilla è una forma familiare all’occhio. Tre elementi dominano la gestalt visiva della confezione Barilla: il parallelepipedo blu, il tondo trasparente e il logo Barilla. La sua taglia, recentemente ingrandita, focalizza ulteriormente lo sguardo e lo porta letteralmente verso il prodotto. Si potrebbe persino stabilire un parallelo, da un punto di vista esclusivamente compositivo, tra la struttura visiva del logo del Putén e la struttura della confezione attuale. Oltre al suo ruolo fondamentale di ambasciatore dei valori della marca, il logo svolge così una funzione non meno fondamentale di elemento d’impatto e di riconoscibilità della confezione sullo scaffale o nel punto vendita.


3. GONIZZI Giancarlo (a cura di) Tra arte e pubblicità. Erberto Carboni e la comunicazione Barilla (1922-1960), in “Malacoda” n. 81, nov.- dic. 1998, p. 11. Per un’analisi dei tratti portanti della psicologia della Gestalt si rimanda a MONACHESI Roberto, Marchio: storia, semiotica, produzione. Milano, Lupetti, 1993, p. 112.
4. APPIANO Ave, Manuale di immagine. Torino, Meltemi, 1998, p. 49.
5. Nel 1971 Barilla viene ceduta all’azienda multinazionale americana Grace.
6. La “lingua” bianca, oltre che sulle confezioni, viene inserita su cataloghi e dépliant, sui furgoni aziendali ed è tuttora presente nella carta intestata della Società, come elemento integratore del marchio.

Conclusioni

Immagine 15 – Logo Barilla 2002

Immagine 16 – Logo Barilla Divisione Primo Piatto 2009

Immagine 17 – Logo disegnato da Future Brand 2015

Immagine 18 – Logo Gruppo Barilla 2009

Immagine 19 – Logo Barilla 2022


Se tiriamo un po’ le fila di quest’analisi dettagliata, possiamo riassumere i valori comunicati dal logo Barilla in tre aree semantiche distinte.

* Valori di rassicurazione. Si tratta dei valori che fanno riferimento alla solidità, alla continuità, alle radici, alla dimensione familiare dell’azienda, all’equilibrio generale della marca. Questi valori suggeriscono l’immagine di una marca affidabile, seria, alla quale si può dare la propria fiducia. In termini psicologici siamo nell’area del codice paterno.

* Valori affettivi. Si tratta di valori che fanno riferimento alla tenerezza, alla rotondità alla fecondità, alla generosità, all’emozione, alla bontà (come gusto e come proprietà morale). Questi valori suggeriscono l’immagine di una marca vicina ai suoi consumatori, focalizzata sulla relazione, una marca a cui si può voler bene. In termini psicologici, siamo nell’area del codice materno.

* Valori ludici. Si tratta di valori che fanno riferimento al dinamismo, alla giocosità, alla stimolazione, alla semplicità, al non prendersi troppo sul serio. Questi valori suggeriscono l’immagine di una marca simpatica, allegra, scoppiettante e piena di vita. In termini psicologici, siamo nell’area del codice infantile.

Nel suo insieme, il logo sembra dunque arrivare a coniugare in modo piuttosto armonico tre ordini di valori relativamente distanti e per certi aspetti contraddittori. È forse questa capacità d’articolazione che permette di capire la perennità e la specificità di questo logo. (immagine 15,16,17, 18)

Bibliografia essenziale

AAKER David, Brand Equity. La gestione del valore della marca. Milano, Franco Angeli, 1997.
APPIANO Ave, Manuale di immagine. Torino, Meltemi, 1998.
CERIANI Giulia, Marketing moving. Milano, Franco Angeli, 2001.
CORRADINI Nicola, I segni della comunicazione industriale. Torino, Ets ed., 1987.
MONACHESI Roberto, Marchio: storia, semiotica, produzione. Milano, Lupetti, 1993.
SEMPRINI Andrea, Marche e mondi possibili. Milano, Franco Angeli, 1993.
SEMPRINI Andrea, La marca. Milano, Lupetti, 1996
SEMPRINI Andrea – MUSSO Patrizia, Dare un senso alla Marca, in LOMBARDI Marco (a c. di), Il dolce tuono. Milano, Franco Angeli,
2000, pp.43-66.
ZANDA Gianfranco, LACCHINI Marco, ONESTI Tiziano, La valutazione delle aziende. Torino, Giappichelli, 1997.