È di rigore l’abito blu

Il packaging Barilla: evoluzioni storiche e ragioni socio-semiotiche

Mauro Ferraresi

A ritroso

Nel 1916 le confezioni Barilla avevano già il fondo blu. Un caso estremo di coerenza che dura da quasi cento anni?
Tutto nasce, in effetti, a partire da ragioni storiche specifiche e attinenti al settore merceologico nel quale si è sempre trovata ad operare Barilla: il settore alimentare. È bene ripercorrere le principali tappe di tale coerente percorso, perché ciò serve a comprendere meglio l’attuale dibattito e le tendenze sulla confezione.
All’inizio del secolo la pasta in Italia era distribuita in modo molto diverso dall’attuale.
Se decidiamo di effettuare un piccolo salto temporale fino ai primi anni del Novecento ed entriamo in un importante negozio di alimentari localizzato, poniamo, nel centro di Parma mentre è nel pieno della sua attività, potremmo vedere un arredamento davvero particolare e osservare una serie di gesti di cui abbiamo perso la memoria. Il negoziante ci avrebbe accolto dietro un massiccio bancone in legno scuro e fregiato, posto verso il lato opposto dell’entrata. Soffermandoci al centro del negozio avremmo potuto vedere come tutte le pareti fossero ricoperte da enormi madie scure, anch’esse in legno. Alle madie si poteva accedere aprendo innumerevoli cassetti: uno per ogni madia. L’apertura “a pala” permetteva di poter vedere all’interno del cassetto la pasta che vi era stata precedentemente versata, senza che questa fuoriuscisse o venisse in qualche modo toccata da mani inesperte. Talvolta le madie comprendevano una finestrella in vetro che permetteva di riconoscere a colpo d’occhio il tipo di pasta, senza aprire. Oppure, si veniva avvertiti del contenuto tramite etichette scritte a mano spesso in un corsivo svolazzante. A seconda delle richieste del cliente, il negoziante apriva la madia corrispondente e, con una capiente paletta sempre in legno, raccoglieva la quantità di pasta, la posava sopra un foglio di carta alimentare per prodotto secco, dal lieve colore azzurrino tipico della carta “da zucchero”, poneva tutto sopra una bilancia, e infine richiudeva la confezione con un’abilità oggi dimenticata. A malapena residui di questa abilità si mantengono presso i venditori e i commercianti dei nostri mercati rionali.

Fino alla metà del Novecento i negozi di alimentari – qui il punto vendita Barilla di Strada Vittorio Emanuele in una foto di Alberto Montacchini del 1932 [ASB, BAR I A 299] – presentavano la pasta sfusa in grandi mobili a cassetti o in eleganti vasi di cristallo e sfusa veniva venduta, dopo averla racchiusa in un cartoccio di carta per alimenti di colore azzurro.

Fino alla metà del Novecento i negozi di alimentari – qui il punto vendita Barilla di Strada Vittorio Emanuele in una foto di Alberto Montacchini del 1932 [ASB, BAR I A 299] – presentavano la pasta sfusa in grandi mobili a cassetti o in eleganti vasi di cristallo e sfusa veniva venduta, dopo averla racchiusa in un cartoccio di carta per alimenti di colore azzurro.

Un piccolo esperimento mentale

Le prime confezioni per prodotti alimentari nascono da lì; da quei semplici gesti.
Il lettore, per favore, continui insieme a noi questo piccolo esperimento di memoria indotta, quasi un gedankenesperiment. Vaghiamo con gli occhi del ricordo attraverso quel negozio parmense di più di cent’anni fa, ponendo mente a quello che sentiamo, vediamo, proviamo. Il negozio è davvero particolare. Tutto quel legno misto alla pasta sollecita l’olfatto con un profumo che richiama naturalità, pulizia, campagna, raccolto, granai. Ma il negozio è, tutto sommato, cupo. Le madie incombono da tutte le parti e salgono così in alto da diventare incombenti, e da fornire l’impressione di rovinare da un momento all’altro sulle teste dei malcapitati clienti. La tavolozza monocromatica che ora scorre sotto il nostro sguardo ci mostra un legno scuro che rende l’arredo quasi minaccioso. I bambini, al seguito delle loro mamme, entrano timorosi nel negozio, quasi impauriti. La manina ben stretta in quella del genitore. Per soprammercato, anche il bancone è dello stesso legno scuro delle madie. E poi è massiccio, davvero imponente, con quei fregi che ora acquistano quasi l’aspetto di altrettante Gargolle, le piccole statue raffiguranti esseri mostruosi. Le Gargolle venivano scolpite nelle facciate delle cattedrali gotiche e talvolta fungevano da doccioni. Il loro scopo era di spaventare e tenere lontani i diavoli e gli spiriti maligni dal luogo consacrato. Bene, il bancone massiccio sembra proprio fregiato con altrettante Gargolle. Come si fa ad entrare a cuor leggero in un luogo simile? Eppure, una nota di colore rasserenante si può rintracciare. L’omogeneità della scala cromatica viene interrotta e contrastata innanzi tutto dal giallo tenero della pasta, caldo, tranquillo, invogliante. Poi, non dimentichiamolo, da quel riquadro di carta azzurrina che andrà a ricoprire totalmente il prodotto.
Come si sposano bene tra loro il giallo caldo e l’azzurro “carta da zucchero”. Come contrastano efficacemente tutta quella cupezza fornita dal marrone scuro del legno!
Per differenza, a causa del forte gioco di contrasto cromatico, pasta e carta per confezione acquistano rilevanza, raggiungono un alto tasso di memorizzazione perché nel sistema negozio essi esibiscono una decisa capacità di richiamare l’attenzione del cliente, vale a dire un’elevata indicalità questa volta di tipo esclusivamente cromatico.

Le ragioni semiotiche di un packaging

Oggi, per spiegare questo sistema complesso di comunicazione esemplificato dal sistema negozio che abbiamo parzialmente ricreato grazie al nostro esperimento mentale, parliamo di sistema globale di comunicazione.
Il sistema globale di comunicazione è un composto di semiotiche, perché bisogna considerare che un negozio comunica tramite la disposizione degli spazi, ma anche tramite i colori, tramite gli aspetti verbali (insegne, logo, cartelli vetrina, …). E ognuno di tali elementi comunicativi è una semiotica con proprie modalità espressive che debbono essere studiate.
Ebbene, nel nostro caso non è necessario addentrarci in profondità con una analisi semiotica per dimostrare che l’azzurro della carta per alimento secco che veniva usata nei negozi alimentari il secolo scorso è rilevante per l’intero communication mix di Barilla. Ragioni storiche prima ancora che semiotiche lo testimoniano. Ci limiteremo a osservare che per via di un elemento puramente estetico, la carta azzurra che risalta e squilla e si oppone al legno scuro così presente nei negozi alimentari di allora, si alimenta un effetto di senso profondo e duraturo. In altri termini, gli elementi puramente estetici e cromatici si caricano di valenze affettive. I due colori, anzi diremo meglio le due composizioni di colore, da un lato il giallo ambrato della pasta insieme con l’azzurro “carta da zucchero”, dall’altro le varie sfumature del legno scuro, occupano ognuno una parte opposta. In termini precisi potremmo dire che le due composizioni articolano una categoria semantica, quella della timìa esibita dal punto vendita, e la assiologizzano. In altri termini, le due opposte composizioni di colori sono responsabili delle emozioni che il negozio veicola e diffonde intorno al cliente. Ma ogni composizione si sceglie, per così dire, una parte che si oppone nettamente all’altra. Se una composizione è cupa, l’altra è allegra. Se una composizione è seria e poderosa, l’altra e serena e leggera. Se una composizione è incombente e quasi minacciosa, l’altra è solare, aperta.
Da questo gioco di opposizioni può nascere quel carico di significati che sempre si legherà alla pasta e, per le ragioni che spiegheremo tra poco, alla carta azzurrina. Tale portato semantico, tale congerie di significati ben affastellati e quasi fusi insieme, diventa la base e il fondo su cui costruire il mondo possibile della marca Barilla. Ecco perché il packaging è così importante per questa azienda. Se le cose sono andate così, se il nostro esperimento mentale ha qualche fondamento, allora abbiamo in mano la chiave per dispiegare e aprire l’intero mondo dell’esperienza di Barilla, vale a dire possiamo comprendere le ragioni sensibili, concrete, esperienziali del mondo possibile di Barilla, e, che poi è lo stesso, della sua Brand Equity.

Ma andiamo con ordine. A questa differenziazione cromatica ancora solamente di tipo estetico si somma un elemento estesico. La medesima carta che avvolge la pasta si carica cioè di una valenza legata alla nostra esperienza sensoriale. Non è più solamente un colore “che balza all’occhio” e che si fa vedere, ma nel dispiegarsi alla vista esso va anche a colpire tutti gli altri sensi. Un colore ingenera sensazioni tattili, olfattive, addirittura gustative. In termine tecnico e retorico questo fascio di fenomeni sensibili si definisce sinestesia. In questo far vedere si innestano cioè «per la componente affettiva e sensibile della esperienza quotidiana», (1) una nuova congiunzione del soggetto con il mondo e, nel nostro caso, una particolare comunanza tra il cliente e la carta azzurrina. Ma il fenomeno non si arresta qui. Generare un commercio sempre più vasto tra le nostre aree sensibili e percettive e un determinato oggetto del mondo produce, contemporaneamente, altre sensazioni, anzi veri moti dell’animo, pulsioni affettive, o addirittura passioni vere e proprie. Questa componente passionale del complesso fenomeno che stiamo analizzando qui si chiama timìa, o componente timica.

Quindi, riassumendo: la carta azzurrina è stata in grado di instaurare un rapporto molto complesso con il cliente. Ragioni storiche, antropologiche e soprattutto semiotiche hanno fatto sì che quel pezzo di carta colorata, quel protopackaging, si trasformasse nel segno di una esperienza vissuta. Quotidiana, certo. Se vogliamo banale, come è banale andare ogni giorno a fare la spesa. Ma un’esperienza legata anche a indiscussi bisogni primari dell’uomo, come quello del procacciarsi il cibo. E se è vero che la pasta è alla base della moderna piramide alimentare, allora tanto più forte diventa l’esperienza estetica, estesica e timica fornita dalla pasta stessa, nelle sue forme, dimensioni, colori, e da quel pezzo di carta azzurrina che alla pasta, quindi a un oggetto investito di valore per le ragioni appena dette, si è sempre accompagnato. Si concretizza così una esperienza, anzi una semiotica della esperienza, perché la messe di sensazioni, di percezioni e di godimenti estetici deriva da un testo composto di pasta e carta, di pasta e confezione.

Con la carta per alimenti, detta comunemente “carta da zucchero” venivano preparate le prime, rudimentali, confezioni legate con lo spago e sigillate con etichette litografate, destinate perlopiù ad essere esposte in vetrina. Qui una confezione illustrata nel catalogo Barilla del 1916 [ASB, BAR I Na 1916/10].

Con la carta per alimenti, detta comunemente “carta da zucchero” venivano preparate le prime, rudimentali, confezioni legate con lo spago e sigillate con etichette litografate, destinate perlopiù ad essere esposte in vetrina. Qui una confezione illustrata nel catalogo Barilla del 1916 [ASB, BAR I Na 1916/10].


1FABBRI Paolo, Introduzione a Algirdas Greimas, Dell’imperfezione. Palermo, Sellerio, 1988, p. IX.

Dai corbelli alle prime confezioni

E viene naturale – ma abbiamo visto quanta competenza semiotica è insita in quella scelta solo apparentemente semplice e naturale – decidere di iniziare a costruire le prime confezioni di rappresentanza per prodotti specifici più costosi, o per prodotti dedicati ad occasioni speciali, sfruttando e mantenendo quel colore azzurrino carta da zucchero che ormai si poteva immediatamente associare al prodotto.
Nel 1916, si diceva, il fondo blu è già una presenza ben avvertibile. La distribuzione della pasta a quell’epoca avveniva grazie a carri trainati. Il prodotto era stipato in corbelli, grosse ceste di scorza di castagno, che poi venivano svuotate nei cassetti del negoziante. Era necessaria una gestione dei corbelli vuoti, e il colore blu compariva nella carta che avvolgeva la pasta e la difendeva dalle pareti del corbello. Oltre che, naturalmente, dalla polvere e dagli agenti esterni.

Con la carta per alimenti venivano anche foderati i “corbelli”, cesti di scorza di castagno utilizzati per le spedizioni ai negozianti. Qui il Reparto Spedizioni Barilla nel 1911 in una foto di Luigi Vaghi con, in primo piano, numerosi corbelli pronti per la spedizione [ASB, BAR I A 29].

Con la carta per alimenti venivano anche foderati i “corbelli”, cesti di scorza di castagno utilizzati per le spedizioni ai negozianti. Qui il Reparto Spedizioni Barilla nel 1911 in una foto di Luigi Vaghi con, in primo piano, numerosi corbelli pronti per la spedizione [ASB, BAR I A 29].


Negli anni Trenta si comincia a ragionare sul packaging. Bisogna premettere che sentire l’esigenza di produrre un packaging in senso moderno, non poteva sorgere in modo isolato. Era l’intero sistema di commercializzazione che in Italia stava cambiando e che Barilla fu svelta a cogliere nel suo dispiegarsi. Nel caso della vendita di prodotti sfusi il negozio era per forza “monomarca”. Non c’era infatti nessuna confezione che potesse certificare che quel tal prodotto era di quella tale azienda. Era in qualche modo il negoziante che svolgeva il ruolo di marca. Il cliente sapeva che in quel negozio si vendeva pasta Barilla. Quando il prodotto si vendeva sfuso il cliente per Barilla era il negoziante, mentre i clienti finali, gli acquirenti come quella signora che entra con la manina del bambino ben stretta alla sua, costituivano il portafoglio del negoziante e ne determinavano presso Barilla il suo potere contrattuale. La logica delle confezioni nasce proprio dalla trasformazione della distribuzione e dalla conseguente fine dei negozi «monomarca». Diventa necessario distinguere i vari prodotti e le varie marche tra loro.

Il packaging Barilla nasce da lì e manterrà alcuni specifici caratteri distintivi in modo da poter essere riconosciuto al primo colpo d’occhio. Caratteri, ad esempio, come il colore azzurrino. Senza alcuna conoscenza semiotica, in Barilla sapevano comunque molto bene che l’impatto visivo e l’immediata riconoscibilità erano preziosi elementi di distinzione comunicativa che bisognava sfruttare.

Emerge così un senso di continuità nel tempo. Tale senso di continuità viene privilegiato quando si decide di continuare a mostrare, in modo sintonico con il consumatore, quel colore azzurro per il packaging. Basta scegliere uno solo degli elementi di quel testo esperienziale costituito da pasta e carta di cui si diceva prima, per ricreare, a livello emotivo, timico, quel carico di sensazioni positive che il cliente in un qualche modo ha storicizzato e fatto suo le innumerevoli volte che ha compiuto un atto d’acquisto di pasta Barilla.

Quelle prime confezioni confermavano determinate abitudini emotive perché riproponevano ai consumatori e ai clienti il medesimo carico di emozioni e di esperienze dei primi acquisti svolti nei negozi alimentari di tanti anni prima.

Nella seconda metà degli anni Trenta, con l’ingresso in azienda di Pietro Barilla, iniziano le prime sperimentazioni sul confezionamento – qui le scatole destinate all’esportazione disegnate da Giuseppe Venturini e tratte dal catalogo 1940 – [ASB, BAR I Na 1940] – indispensabile premessa per il lancio del prodotto in scatola nel dopoguerra.

Nella seconda metà degli anni Trenta, con l’ingresso in azienda di Pietro Barilla, iniziano le prime sperimentazioni sul confezionamento – qui le scatole destinate all’esportazione disegnate da Giuseppe Venturini e tratte dal catalogo 1940 – [ASB, BAR I Na 1940] – indispensabile premessa per il lancio del prodotto in scatola nel dopoguerra.

L’immagine coordinata

Nel 1950 Pietro Barilla visita gli Stati Uniti e si accorge dell’esistenza di un nuovo modello distributivo ancora sconosciuto in Europa: scopre, infatti, là i primi supermercati. I supermercati nascono proprio in quel periodo e rivoluzionano nel profondo le abitudini di consumo degli americani. Questo, Barilla lo intuisce, così come comprende che sta vedendo, in quel momento, il futuro dell’Europa, cioè quanto sarebbe accaduto anche da noi di lì a qualche anno. In realtà di anni ne sarebbero passati parecchi, almeno venti, ma in ogni caso c’era modo di prepararsi.
Di ritorno dagli Stati Uniti chiama a sé Erberto Carboni e gli chiede di curare l’immagine dell’azienda. I supermercati in Italia ancora non ci sono (il primo, a Milano, è del 1959, ma bisognerà aspettare gli anni Settanta per una loro più ampia diffusione) ma Barilla vuole trovarsi pronto. E poi la pubblicità comincia timidamente a farsi sentire anche nella Penisola. Ed è una vetrina alla quale bisogna affacciarsi bene agghindati.
Erberto Carboni costruisce l’immagine coordinata di Barilla. Secondo il suo progetto, qualunque mezzo deve essere complementare. Qualunque possibilità di comunicazione di Barilla, sia attraverso affissione, annuncio stampa, confezione, marchio e, molto più tardi, pubblicità televisiva, deve rimandarsi l’un l’altra. Il logo, i colori, il lettering, l’impaginatura devono mostrare un’aria di famiglia in modo che il consumatore si ritrovi dentro un mondo coordinato e coerente. Oggi questi concetti sono la base di ogni discorso pubblicitario ma allora, a Parma negli anni Cinquanta, si stava davvero svolgendo un lavoro di frontiera assolutamente pionieristico. Oggi si direbbe che si trattava di estendere i concetti di fondo di Barilla a tutte le componenti del communication mix.
Carboni costruisce il marchio, la confezione, e il format per la pubblicità stampa e per l’affissione. Inoltre studia la calandra per i furgoni Barilla che girano ormai in tutta Italia. In seguito lavorerà anche ai primi filmati televisivi.

Il pack a righe bianche e azzurre disegnato da Erberto Carboni nel 1952 [ASB, BAR I G 1952/1].

Il pack a righe bianche e azzurre disegnato da Erberto Carboni nel 1952 [ASB, BAR I G 1952/1].

Erberto Carboni, confezione originale per la pasta Barilla, in uso nel 1955, con la finestra che consente la visione del prodotto – [ASB, BAR I Nb 1955].

Erberto Carboni, confezione originale per la pasta Barilla, in uso nel 1955, con la finestra che consente la visione del prodotto – [ASB, BAR I Nb 1955].

Erberto Carboni, confezione per la pasta all’uovo Barilla con l’esclusiva finestratura “ad angolo” brevettata – [ASB, BAR I Na 1955].

Erberto Carboni, confezione per la pasta all’uovo Barilla con l’esclusiva finestratura “ad angolo” brevettata – [ASB, BAR I Na 1955].

Brevetto per la confezione della pasta all’uovo con finestratura ad angolo [Archivio Centrale dello Stato, Fondo Ufficio Italiano Brevetti e Marchi, n. 75571 del 20/10/1955]. Pur tecnicamente evolute, queste confezioni, forse dall’aspetto troppo “freddo” e asettico, non incontrarono il favore dei consumatori.

Brevetto per la confezione della pasta all’uovo con finestratura ad angolo [Archivio Centrale dello Stato, Fondo Ufficio Italiano Brevetti e Marchi, n. 75571 del 20/10/1955]. Pur tecnicamente evolute, queste confezioni, forse dall’aspetto troppo “freddo” e asettico, non incontrarono il favore dei consumatori.


Da dove parte Carboni per studiare l’immagine coordinata Barilla? È interessante valutare gli elementi figurativi di base che Carboni raccoglie e interpreta.
Nel primo marchio Barilla è convocata la figura del garzone, del giovane di bottega, che rovescia nella madia colma di farina un gigantesco uovo, ingrediente principale della pasta che così assurge agli onori di servologo, e comunque di arricchimento grafico del marchio e della confezione. La pasta all’uovo è indubbiamente una ricetta emiliana, parmense. Da Parma, il prodotto con le sue caratteristiche è pronto per essere venduto in tutta Italia. Carboni prende l’uovo e lo taglia per il lato della lunghezza. Ripulisce da svolazzi il marchio precedente, prende un foglio di carta da zucchero, ci mette la pasta sopra e la fotografa in moto tale da costruire con i sedanini, con i maccheroncini, con gli spaghettini, la struttura visiva della confezione; poi piega quel foglio e ci mette il marchio sopra.

Nel 1956 Erberto Carboni mette a punto una nuova linea di confezioni per la Pasta Barilla. Partendo dal famigliare foglio di carta per alimenti di colore azzurro su cui viene disseminato “a pioggia” il formato di pasta – qui sotto una delle cento foto del milanese Aldo Ballo realizzate per la preparazione del nuovo pack [ASB, BAR I A, Fondo Ballo].

Nel 1956 Erberto Carboni mette a punto una nuova linea di confezioni per la Pasta Barilla. Partendo dal famigliare foglio di carta per alimenti di colore azzurro su cui viene disseminato “a pioggia” il formato di pasta – qui sotto una delle cento foto del milanese Aldo Ballo realizzate per la preparazione del nuovo pack [ASB, BAR I A, Fondo Ballo].

Erberto Carboni, Packaging per la pasta Barilla, Anellini, in uno scatto di Aldo Ballo, 1956. Carboni realizza, con l’aggiunta del logo e di pochi elementi “tecnici” la scatola blu che diverrà tradizionale e imprescindibile nell’immagine della Pasta Barilla [ASB, BAR I A, Fondo Ballo].

Erberto Carboni, Packaging per la pasta Barilla, Anellini, in uno scatto di Aldo Ballo, 1956. Carboni realizza, con l’aggiunta del logo e di pochi elementi “tecnici” la scatola blu che diverrà tradizionale e imprescindibile nell’immagine della Pasta Barilla [ASB, BAR I A, Fondo Ballo].

Erberto Carboni, Packaging per la pasta Barilla, Farfalle, 1956.

Erberto Carboni, Packaging per la pasta Barilla, Farfalle, 1956.

Due scatti di Bruno Vaghi mostrano la “rivoluzione” del confezionamento nel ciclo produttivo: le scatole stampate, ma ancora stese, vengono prelevate dalla macchina per essere “aperte” e, a lato, la teoria di pacchetti già sigillati esce dalla riempitrice sotto gli occhi vigili di un’operatrice nello stabilimento Barilla di Parma negli anni Sessanta del Novecento [ASB, BAR I A, Fondo Vaghi].

Due scatti di Bruno Vaghi mostrano la “rivoluzione” del confezionamento nel ciclo produttivo: le scatole stampate, ma ancora stese, vengono prelevate dalla macchina per essere “aperte” e, a lato, la teoria di pacchetti già sigillati esce dalla riempitrice sotto gli occhi vigili di un’operatrice nello stabilimento Barilla di Parma negli anni Sessanta del Novecento [ASB, BAR I A, Fondo Vaghi].


In questo modo la confezione di Carboni vede la luce. Egli, naturalmente, usa la carta azzurra dello stesso punto colore di quel primo foglio per alimenti secchi.
In realtà, prima di questa scatola, nel 1952 Carboni ne aveva progettata una versione più rivoluzionaria: aveva voluto inserire alcuni messaggi “educativi” sulla confezione. Messaggi che insegnavano al consumatore il corretto uso della confezione e soprattutto del prodotto. Ma era troppo avanti e non verrà compreso. Il pubblico vedeva quelle prime confezioni nuove, con la cosiddetta “area tecnica” di scritte e istruzioni. Aveva già costruito allora un pack addirittura artistico.
Il risultato fu che quei packaging vennero percepiti come troppo distanti dall’area alimentare. Le informazioni alimentari, le modalità d’uso, il ricettario, i testi di intrattenimento sul packaging saranno una realtà accettata solo molto più avanti. Carboni era davvero un precursore.
Con la nascita della confezione blu e la fine del negozio “monomarca”, e quale tra i due fenomeni è stato conseguenza dell’altro è difficile a dirsi, un nuovo oggetto vede la luce: l’espositore.

Erberto Carboni, Questa è la pasta per tutti, Pubblicità stampa per la pasta Barilla, 1959.

Erberto Carboni, Questa è la pasta per tutti, Pubblicità stampa per la pasta Barilla, 1959.

Espositore in filo metallico e tubolare con ruote e targa smaltata per la vendita del prodotto confezionato, diffuso nei negozi a partire dal 1956 [ASB, BAR, I, Ri, Espositori].

Espositore in filo metallico e tubolare con ruote e targa smaltata per la vendita del prodotto confezionato, diffuso nei negozi a partire dal 1956 [ASB, BAR, I, Ri, Espositori].


Siamo nel 1954. Il packaging è diventato ormai adulto, è un vero e proprio grimaldello commerciale che diventa esso stesso elemento di comunicazione ed entra come protagonista. È nella diegesi, cioè nelle storie raccontate dalla pubblicità, e diventa l’eroe o l’aiutante della massaia nei momenti di difficoltà quotidiana.

Da Carboni alle agenzie internazionali

La confezioni pensata da Carboni, pur passando attraverso numerosi aggiustamenti e restyling, nasce nel 1956 e prosegue fino al 1970. Negli anni Settanta, contemporaneamente alla cessione delle quote Barilla alla multinazionale americana Grace, viene inaugurata una operazione di lettering e la pasta va in pentola, nel senso che il cosiddetto contratto di veridizione, si allarga fino a comprendere l’atto del consumo, e sul packaging compare la fotografia, appunto, della pasta in pentola. In quest’ottica diremo più contestuale, il focus viene spostato su ciò che si fa con il prodotto e non tanto sul prodotto stesso. In altri termini il discorso del packaging cambia. Non si limita più a dire: «Sono un prodotto e sono la pasta», ma aggiunge: «Consumami, mettimi in pentola, fai quello per cui sono stata prodotta: cucinami». Bisognerà aspettare gli anni Ottanta perché, nei comunicati stampa, nei film pubblicitari e anche sul packaging, compaia infine una forchetta con la pasta ben salda oppure arrotolata sopra. In modo tale che a quel «cucinami», ora è possibile aggiungere un deciso: «mangiami».

Questi cambiamenti sono dovuti anche al fatto che ora ad occuparsi del packaging Barilla, di tutta la comunicazione, non c’è più un solo e geniale designer, ma un’agenzia di pubblicità internazionale. La TBWA è quella che, nel 1984 lascia uscire la pasta dalla pentola e la pone sul piatto, pronta al consumo. Frattanto erano comparsi il ricettario e le schede sul retro, importanti strumenti d’uso, per elevare la pasta e nobilitarla, suggerendo che «è sempre Domenica» e vale sempre la pena di trattarsi bene con pasta Barilla.

Alcune tappe recenti

Le tappe principali dei cambiamenti subiti dal packaging dagli anni Ottanta fino ad oggi sono le seguenti.
Nel 1985 Vittorio Mancini introduce la forchetta che raccoglie la pasta e la pone in primo piano, davanti a un consumatore di cui si fa ellissi, che cioè non compare nella fotografia
Nei primi anni Novanta, 1993, 1994, nasce il fenomeno degli Hard Discount. Per fare fronte a questa nuova minaccia si mette mano anche a una ristrutturazione del packaging. Il colore, l’ormai famoso blu Barilla, si schiarisce e nasce la finestra che lascia vedere la pasta all’interno della confezione; il marchio è molto più incisivo. Inoltre, compare la dicitura «Italia» e i colori italiani a dimostrazione che la pasta è ormai internazionale. Sono i primi timidi segnali di un mercato avviato verso la globalizzazione. Sul retro continuano a comparire le ricette.
Nel 2000 la finestra si rimpicciolisce, torna l’appetizing nelle vesti di una forchetta più piccola ricolma di pasta.
Non è possibile analizzare questi cambiamenti non inserendoli in un contesto più ampio, che consideri quelle che sono, oggi, le funzioni attuali del packaging e le sue tendenze. È per tali motivi che, prima di avviarci verso le conclusioni di questa disamina, affronteremo nel prossimo paragrafo le tendenze attuali del packaging.

L’evoluzione della scatola Barilla nel tempo evidenzia la progressiva trasformazione dell’iniziale colore azzurro – colore “tecnico, chiaramente riferita alla carta per alimenti impiegata nel passato - verso tonalità blu sempre più intense, sfumate, tridimensionali e “psicologiche”. Si nota anche l’evoluzione dell’immagine della pasta, che da ingrediente secco, attraverso vari stadi, viene oggi rappresentata come cibo pronto da gustare [ASB, BAR, I, Na, 1954, 1969, 1984, 1985, 1996, 2000, 2002].

L’evoluzione della scatola Barilla nel tempo evidenzia la progressiva trasformazione dell’iniziale colore azzurro – colore “tecnico, chiaramente riferita alla carta per alimenti impiegata nel passato – verso tonalità blu sempre più intense, sfumate, tridimensionali e “psicologiche”. Si nota anche l’evoluzione dell’immagine della pasta, che da ingrediente secco, attraverso vari stadi, viene oggi rappresentata come cibo pronto da gustare [ASB, BAR, I, Na, 1954, 1969, 1984, 1985, 1996, 2000, 2002].

Il packaging oggi

Che cosa è diventato il packaging oggi? Quali percorsi ha intrapreso e quali intraprenderà?
Non vogliamo tentare qui una analisi esaustiva delle tendenze, delle evoluzioni e delle direzioni verso cui procede il packaging. Anche perché, vista l’ampiezza e l’importanza del fenomeno, potremmo tranquillamente affermare che il packaging non va da nessuna parte in specifico o, per meglio dire, che esso va dappertutto. Una prova? Elenchiamo, in ordine cronologico, alcune tappe evolutive del confezionamento, ovvero di quello che potremmo definire, con complicato neologismo di cui non si avvertiva la mancanza, il processo di ornatizzazione della merce.
Dal nudo prodotto all’ornato della confezione, ecco le principali tappe del percorso. Il lettore scuserà le necessarie semplificazioni.
La prima ragione per ornare il prodotto dotandolo di una ancora incerta forma di packaging è stata quella di conservare e proteggere il contenuto dagli agenti esterni, dalla polvere e dallo sporco,. Ma non ci si deve fare troppe illusioni sul ruolo, come dire, igienico del packaging. Esso è un di cui, una conseguenza derivata soprattutto da un altro compito che il pack doveva assolutamente assolvere. Quelle prime carte che avvolgevano amorosamente il prodotto nascondendolo alla vista e trasformandolo così in un dono occultato e prezioso, rispondevano innanzi tutto a problemi di maneggevolezza e di trasporto. È questo l’aspetto che sopravvive ancor oggi nei nostri mercati rionali e di cui ha dato così ben rilievo Franco La Cecla, analizzando l’antropologia del confezionamento nei mercati di Palermo.

Nei mercati, infatti, sopravvive ancora la primissima funzione del packaging, quella del trasporto. Oggi essa convive insieme a molte altre che, nel corso del tempo si sono fatte sempre più presenti e schiaccianti. Quella igienica, in primo luogo, quella di protezione, quella di comunicazione e, infine, quella contemporanea che definiamo di “messa in discorso”.
La funzione comunicativa del packaging è sorta quando si è avvertita la necessità di ribadire in qualche modo quello che il packaging stesso nascondeva, vale a dire il prodotto. Inizialmente tale processo avveniva semplicemente nominando il prodotto. Poi, le scritte si trasformano in categoria merceologica e il nome in marca («Pasta Barilla», «I Fusilli»). In seguito, si pensa di trovare maggiore aiuto comunicativo grazie a una serie d’informazioni soprattutto visive sul prodotto. Quest’ultimo doveva rimanere sempre nascosto, racchiuso dalla carta, dal cartone, o dalla plastica, ma poteva e doveva esibire una sua rappresentazione più o meno veridica, una foto, un disegno, una illustrazione, in modo tale da costruire quello che in semiotica si definisce contratto di veridizione. Nel contratto di veridizione tra packaging e consumatore la figura del prodotto, per esempio la fotografia del riso in una confezione di riso o di spaghetti in una confezione di spaghetti, testimonia che la confezione “dice la verità”: nasconde un prodotto che dopotutto contiene davvero. In questo non mente. E il consumatore deve sapere ciò ed essere rassicurato. Ma una tale definizione semiotica non coglie appieno il significato di questo gesto visivo, per molti aspetti inaugurante il packaging moderno. Non è solo per mostrare e dimostrare la verità del contenuto che sono comparse foto e illustrazioni di prodotto, singolo oppure contestualizzato nelle occasioni di consumo. È anche e soprattutto perché la sintesi visiva, il piano cromatico che questa reca con sé, e il gioco delle figurativizzazioni che in una qualunque illustrazione producono specifici effetti di senso, rendono molto più attraente il packaging e costringono più frequentemente il consumatore che si aggira distratto lungo i corridoi del GD o del GDO a volgere l’attenzione verso quella o quell’altra confezione posta sugli scaffali. Altrove abbiamo definito questi fenomeni, che costringono l’attenzione del potenziale consumatore, che chiamano alla interlocuzione anche solo per pochi secondi, che spingono a voltare la testa e a fermare l’attenzione, fenomeni attinenti alla indicalità del packaging. La capacità indicale di un packaging misura e spiega perché esso può essere attraente, nel senso di attrarre l’attenzione.

In seguito, con l’aggiunta della specifica degli ingredienti, delle informazioni nutrizionali, della corretta (e comunicata) gestione ecologica del packaging, e di tutti quei testi atti a intrattenere il più possibile l’attenzione del consumatore sulla confezione data, quest’ultima si trasforma in una vera e propria disposizione discorsiva. Siamo alla più recente funzione del packaging. Ed è in questa funzione che gli elementi visivi, foto, illustrazioni, disegni, diventano anche e soprattutto di intrattenimento. Non più solo rappresentazione del prodotto visto singolarmente o in situazione di consumo, ma evocazione visiva di determinate caratteristiche del prodotto, come per esempio la visione di un alpeggio per illustrare un packaging di una marca di latte. Tale visione evoca più che denotare, e amplia il lavoro semiotico del packaging, che così contribuisce ad alimentare il mondo della marca di quel prodotto, inducendo nel consumatore alcune sensazioni specifiche e nuove, contigue al mondo del latte. L’illustrazione di un alpeggio, aumenta il mondo possibile della marca di concetti e sensazioni, come la naturalità, la purezza incontaminata, la vita tranquilla e calma e in buona parte perduta, che si possono ottenere con l’acquisto di quella determinata marca. Le promesse della pubblicità, e il packaging è un concreto e importantissimo veicolo pubblicitario, sono tutte qui: nell’accogliere il consumatore nel mondo possibile della marca che gli evoca questi stati d’animo e pensieri e gli suggerisce che se acquista il prodotto li potrà vivere davvero.

Da trasportatore, a igienizzatore, a protettore, a comunicatore, a istitutore di un contratto con il consumatore, infine a vero e proprio interlocutore posto sullo stesso piano (semiotico) del consumatore, il packaging è diventato adulto: E ora?
Ora si tratta di vedere quali tipologie discorsive, questo interlocutore a tutti gli effetti mette in essere. Diciamo subito che comportarsi come un interlocutore completo, perlomeno da un punto di vista semiotico, significa affermare che il packaging è un componente molto importante di quel mix comunicativo che costituisce l’immagine coordinata di una marca. Dotato di profonde competenze semiotiche e in grado di metterle in atto per condurre un dialogo, diremmo così adulto, con il consumatore, oggi il packaging è diventato, nella sua essenza, eccessivo. Perché?
La funzione della messa in discorso ha generato una funzione sociale che si colora di aspetti volta a volta artistici, passionali, mitici. Spieghiamo bene questo passaggio. Se il packaging è stato abilitato a dialogare, se gli sono stati dati cioè i mezzi semiotici per farlo, allora questa sua capacità di interlocuzione lo rende agente sociale a tutti gli effetti, un tale dialogo gli permette di essere interdefinito nel e dal tessuto sociale, perché a quel punto si può analizzare quel che dice e soprattutto come lo dice, e attraverso quali mezzi e modalità. In questo modo ciò che il packaging comunica può diventare, per esempio, oggetto di un fare artistico. È per tali ragioni che si crea una mitologia del packaging: il suo discorso è diventato smodato. Esso esonda dal suo alveo naturale per allagare altri luoghi sociali: l’arte, i comportamenti quotidiani, i nostri rapporti con gli oggetti e con le persone. È tale la produzione discorsiva del packaging, la sua insistenza e persistenza eccessiva nel tessuto sociale e semiotico, che ora ci sentiamo tutti “impacchettati”, presi nelle confezioni meticciate di noi stessi, in cui le nostre caratteristiche fisiche e psichiche si mescolano con l’ornato di quella griffe, di quella data marca, di quel dato stile, di quel dato gruppo di appartenenza, a cui demandiamo parte del nostro “confezionamento”.

In questo senso il pack oggi è diventato enorme, squilibrato, eccessivo; anche quando è minimalista, anche quando nega se stesso e finge di non presentarsi in forma concreta e piena, ma si presenta comunque in forma semiotica come nel caso dei cosmetici Lush. Non importa se stiamo prendendo in considerazione il packaging della supercaramella Polo, la poltrona sottovuoto, o le provocazioni artistiche di Antoni Muntadas. Questi sono singoli casi, o meglio singoli testi che esprimono un aspetto, una parte. Ma, presi tutti insieme, questi testi producono il discorso del packaging la cui cifra esplicativa sembra essere oggi proprio quella della eccessività. L’eccessività del packaging sta nell’insieme del discorso ch’esso porta avanti, e non nel singolo testo. Non importa cioè se alcuni criteri sacrosantamente ecologici, o naturalistici, spingono alcuni tipi di packaging a essere minimalisti. Non importa se alcuni criteri artistici muovono pure in questa direzione, né se criteri di marketing vogliono un packaging ridotto sempre più ai minimi termini perché non c’è niente di più comunicativo del prodotto stesso, per cui forza e avanti con un packaging che tende a scomparire per mostrare più prodotto possibile (come è avvenuto con Barilla e le sue finestrelle che permettono di vedere la pasta contenuta dentro la scatola). Non importa, infine, se le esigenze di spazio richieste da ricolmi scaffali dei nostri super e iper, unitamente ai pochi spazi presenti nelle madie delle nostre cucine e in generale delle nostre case, spingono verso una miniaturizzazione del pack. Nel suo insieme questi aspetti di miniaturizzazione producono, paradossalmente una eccessività di packaging perché il suo discorso ormai genera e produce all’infinito. Certo, size matters, come insegnano le voluminose confezioni di Corn Flakes che occupano uno spazio triplo rispetto al prodotto contenuto. C’è un intero filone del packaging che è eccessivo in concreto, e non solo da un punto di vista semiotico. Oltre alle confezioni di Corn Flakes possiamo annoverare i voluminosi sacchetti di patatine, di tutti i tipi, o, in generale, le confezioni di biscotti, o di Pop Corn. Da dove proviene questo filone dell’eccessività concreta? Da una serie di concause. Il grande packaging è, infatti, più protettivo del prodotto e se questo è fragile, come i biscotti, una sovradimensione lo protegge meglio da urti e sconquassamenti. Inoltre, il grande packaging copre eventuali carenze e povertà del prodotto e dona una dignità che altrimenti non potrebbe avere. L’appeal di una confezione di patatine è data dai colori, dal gonfiore pacioso della confezione che racchiude una certa quantità d’aria, dalle importanti dimensioni del sacchetto. Basta porre mente al senso di pochezza e di tristezza che forniscono le confezioni unbranded di patatine, quelle ripiene di tanto prodotto ma dentro sacchetti trasparenti sprovvisti di alcuna comunicazione. Si tratta di merce povera in una confezione povera e oltretutto esattamente dimensionata al contenuto. Il consumatore non accetta questo, peraltro più che conveniente value for money, non gli sembra sufficiente, non lo gratifica abbastanza. Ecco perché le confezioni unbranded o private label di patatine non hanno scalfito la leadership delle coloratissime confezioni PAI, per portare un esempio.

La terza concausa della concreta eccessività del packaging riguarda i vari fustini per lavatrice. Ragioni storiche hanno prodotto fustini così abbondanti, ragioni legate a una situazione di consumo nella quale avere tanto prodotto significava aver fatto un buon affare. Oggi la tendenza si è parzialmente invertita, e tutto il settore della detergenza comunica il fatto che con poco si può lavare, ammorbidire, detergere, sgrassare, pulire, scrostare superfici sempre più ampie. Ma le due tendenze, quella del poco per pulire tanto, e quella del tanto acquistato per poco, convivono. E così ritroviamo i vari Svelto, CIF, ma anche i vari Shampoo Johnson, nelle confezioni famiglia o forniti di un trenta per cento in più di prodotto gratis. E il packaging deve testimoniare tale aggiunta attraverso una sua percepibile sovradimensione.

Ma la vera dimensione eccessiva del pack risiede, oltre che in questi casi concreti analizzati, nell’ordine del discorso, come si diceva smodato e pluridirezionale.
Il packaging va dappertutto perché non è un testo, né una teoria di testi, ma piuttosto un vero e proprio discorso, con proprie configurazioni, temi, figure. E come ogni oggetto semioticamente evoluto, il packaging è inflazionato. Parla e fa parlare di sé, fagocitando altre configurazioni discorsive, in primo luogo quella artistica. In questo senso l’opera artistica di Antonio de Pascale, che costruisce enormi packaging con stravaganti, improbabili e contraddittorie illustrazioni, e riuscito a coniugare l’eccessività concreta con quella semiotica. Le opere denominate Zoom ne sono una testimonianza e una denuncia.

In conclusione

Al termine di questa peraltro sommaria analisi dell’evoluzione diacronica del packaging Barilla e della messa in confronto con lo studio de packaging oggi, possiamo provare a trarre alcune conclusioni.
Barilla accaparrandosi il blu, colore più psicologico e meno commerciale dell’azzurro “carta da zucchero” da cui ha preso le mosse, ha presidiato un’area emozionale e timica. In quest’area il blu si manifesta come uno stato dell’animo e non come una definizione di marca.
Se il blu in Barilla è di rigore è anche perché esso è sovraccarico di valenze psicologiche che raccontano qualche cosa del mondo possibile di Barilla. E questo è un patrimonio da mantenere perché il mondo possibile di una marca raggiunge il massimo della sua capacità di accoglimento quando struttura stati d’animo e non solamente sistemi di attese. Passando non attraverso il sensibile, cioè appunto un colore, una forma definita come le grandi “M” di McDonalds, o un segno grafico come lo swoosh di Nike, ma passando invece dal sovrasensibile, dall’emotivo, dal passionale, il blu di Barilla è ormai forma timica.
Basta vederlo per accendersi, oltre che di passione per il prodotto, di una teoria di sensazioni, come la bellezza, la superiorità, l’incontaminato, la superiorità. Sono questi i sentimenti che vengono generati quando si entra in contatto con il mondo possibile Barilla.
E il blu è il potente generatore, anche se non l’unico, di tali stati d’animo.

Riferimenti bibliografici

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